40 anni senza mai dimenticarti
A più di otto lustri di distanza dal vigliacco agguato, la vicenda umana e professionale di Siani continua a suscitare interesse e sotto certi aspetti addirittura clamore
Quarant’anni ma imperterritamente inciso nella memoria della società civile, quella società civile (e giornalistica) che otto lustri or sono non riuscì ad evitare uno dei più efferati assassini della storia del giornalismo italiano. Perché ‘più efferati’? Perché aveva colpito un giovane giornalista che come unica colpa aveva quella di ricercare la verità operando (o illudendosi di operare) nel sentiero della giustizia: Giancarlo Siani. Sono tantissimi gli eventi per ricordare Giancarlo in tutta Italia e anche a Bruxelles: proiezioni di film, spettacoli teatrali, il rifacimento totale del murale al Vomero, ma soprattutto un documentario in prima serata oggi su RAI3 con la straordinaria partecipazione di Toni Servillo, ma anche visite nelle scuole, mostre, convegni, dibattiti e persino una partita di pallavolo dal momento che Giancarlo allenava i suoi allievi.
Sono meritorie le iniziative per fare conoscere Siani ai giovani e per ricordare il lavoro straordinario, l’impegno civile e la determinazione professionale del cronista precario ucciso sul lavoro, con l’auspicio che non si ripeta come nel trentennale, nel suo nome, l’obbrobrio di quando si creò una cappa con un gruppo di ‘sacerdoti’ detentori di verità intangibili che guardava soltanto al passato ed era ben attento a non toccare gli intrecci di quel momento storico, con una criminalità organizzata che era -ed è- molto diversa dal 1985, ma non meno radicata e invasiva; come pure sul luogo dove i killer avevano assassinato Siani non c’era neanche un fiore, mentre “il circo mediatico” si era dato appuntamento a qualche centinaio di metri di distanza, alle rampe a lui intitolate dal Comune: praticamente una “memoria tradita – Il trentennale un’occasione sprecata”, come ebbe a dire l’ex-direttore del quotidiano “Roma”. Al contrario ben vengano operazioni di scavo profondo su tutto il territorio nazionale per far emergere giovani che stanno lavorando nelle università, istituti di ricerca o associazioni sui temi della legalità e della criminalità.
A più di otto lustri di distanza dal vigliacco agguato, la vicenda umana e professionale di Siani continua a suscitare interesse e sotto certi aspetti addirittura clamore. Viene da chiedersi come mai un episodio seppure crudele ed infamante, come l’assassinio di un giovane giornalista, non abbia smesso di toccare il cuore e la mente anche di coloro che della figura di Giancarlo vagheggiano ormai solo le storie “narrate” da altri, spesso dai tanti che di Siani, “in presa diretta”, conoscono appena poche tracce, sparse magari da ignoti cantastorie. Ma probabilmente la risposta a questo interrogativo appare oggi molto più semplice e persino scontata. La vicenda di Giancarlo tocca la cattiva coscienza di un pezzo della società che ha cercato in tutti questi anni non tanto di rimuovere il ricordo della sua personalità quanto di costruirsi un alibi per assolversi dalle proprie inadempienze o da vere e proprie colpe ed omissioni.
La verità è che Giancarlo ha vissuto la sua breve ma intensa storia personale e professionale in un momento in cui si avvertiva l’esigenza, ma forse sarebbe più esatto dire l’urgenza, di un cambiamento profondo della condizione professionale per quanto riguardava in particolare la funzione e la gestione della “società dell’informazione”, concepita come un diritto democratico, espressione di un esercizio di libertà, privo di sotterfugi e imposture. Giancarlo sognava un mondo affrancato da compromessi e giochi di palazzo, consapevole che solo chi ha il coraggio di indagare e portare a galla la verità ha davvero la giustificazione per vidimare il proprio passaporto intellettuale; in questa ricerca di assoluta coerenza ed onestà, il giovane cronista spese la sua vita, pagando alla fine un prezzo assurdo e incalcolabile. Ma il suo è stato per così dire un sacrificio utile? Il punto è questo: ciò che è avvenuto “dopo” non rende giustizia alla sua storia, proprio perché sul suo lavoro e sulle sue capacità si sono precipitati in troppi e in massima parte proprio coloro che Giancarlo non amava, ma considerava come un vero ostacolo intellettuale da rimuovere per conseguire l’obiettivo di chi opera nel mondo della comunicazione, vale a dire racccontare la verità senza orpelli ma senza fare sconti a nessuno.
In questi quarant’anni si è visto costituirsi viceversa uno scenario all’insegna di un ignobile sciacallaggio, con lo scopo precipuo di usare il suo nome e la sua storia per tornaconti di bottega per niente funzionali alla sua specchiata figura. Non c’è che dire: molti si sono letteralmente gettati sul suo nome senza rendere né onore né giustizia alla sua vicenda e al suo rigore professionale. In questi otto lustri è come se Giancarlo in definitiva fosse stato ucciso più di una volta. È stato così ed è doloroso giocoforza doverlo ammettere. Nella giostra mediatica scatenatasi all’indomani della sua morte e per tutto il lungo tempo che ormai ci separa dal quel tragico 23 settembre 1985, ognuno ha cercato di portarsi a casa un pezzetto delle sue spoglie, per crearsi a seconda dei casi e forse talvolta perfino involontariamente, un alibi o un lasciapassare gratificante per il proprio curriculum.
Con grande umiltà e aderenza ai fatti esistenziali che mi hanno legato a Giancarlo ho tentato di riportarne gran parte in un libro (IOD Edizioni) dedicato alla memoria del compagno scomparso ormai da tempo, ma col quale ho percorso un tratto significativo di strada comune, a conferma di questo triste stato di cose. Ed è questa probabilmente anche la ragione per cui tale contributo arriva tardivo. È come se avessi atteso tanto tempo per dare adito ad una speranza cullata a lungo, vale a dire verificare l’esorcizzazione o almeno il superamento di una posizione che il tempo ha viceversa resa stagnante e pervicace; ma ancora non per caso arriva la forma con cui questo lavoro è costruito, vale a dire un epistolario in qualche misura sgomento e immaginario ma nel quale è ipotizzabile – solo ora – colloquiare fraternamente con l’amico, nel momento in cui è possibile cioè certificare senza ombra di dubbio la delusione per tutto ciò che non si è riusciti a modificare ed ottenere, per l’amarezza insopportabile nel pensare che i temi e gli argomenti per i quali Giancarlo si è speso e battuto – e con lui una parte della sua generazione – vengono oggi etichettati definitivamente con la cifra della resa e della sconfitta.
Ed ecco la domanda di fondo: allora Giancarlo è morto per niente? Per una “passione inutile”? È un interrogativo al tempo stesso spietato e spiazzante. E solo la finzione di una comunicazione pudica ma impossibile, affidata unicamente ad un epistolario di sogno, può forse tenere ancora viva una fiammella, uno spiraglio attraverso cui far filtrare il messaggio e la lezione che Siani ci ha lasciato. È come dire in disperata sintesi: “Caro Giancarlo, noi siamo ancora qui e vogliamo credere al tuo insegnamento, pur nell’aridità di un tempo che non è quello bramato insieme e che mortifica e vanifica ogni giorno il tuo e il nostro lavoro”. E solo in questa “Babele dei sogni” è possibile far riemergere poi in tutta la sua immacolata purezza la figura incorruttibile di un grande amico perduto ma mai dimenticato.







