scritto da Elvira Coppola Amabile - 05 Febbraio 2024 14:48

Il Carnevale Cavese

A Cava fiorì una delle più antiche ed interessanti forme di teatro delle origini: la farsa cavajola. Dei farsajoli e del loro modo di recitare stroppole e facezie alla maniera dei saltimbanchi, durante il Capodanno e il Carnevale sono pieni i testi di teatro e di letteratura, ma quasi nulla è sopravvissuto della tradizione orale

Ho trovato questi appunti, che desidero condividere con voi. Purtroppo, non ho segnato il nome dell’autore, buona lettura quindi nell’auspicio che qualcuno dei lettori ne sveli l’identità e gli sia così riconosciuto il giusto merito.

Del Carnevale cavese dei suoi riti, delle sue manifestazioni originarie conosciamo poco. Sappiamo, invece abbastanza del costume dei cavesi di esibirsi nelle piazze dei paesi vicini tanto in occasione di feste e fiere che ricorrenze calendarizzate dal ciclo agricolo.

A Cava, infatti, fiorì una delle più antiche ed interessanti forme di teatro delle origini: la farsa cavajola. Dei farsajoli e del loro modo di recitare stroppole e facezie alla maniera dei saltimbanchi, durante il Capodanno e il Carnevale sono pieni i testi di teatro e di letteratura, ma quasi nulla è sopravvissuto della tradizione orale.

Le facezie dette o rappresentate dai farsajoli, non sempre resero onore al carattere e alla cultura, alle arti ed ai mestieri dei cavesi che, molto probabilmente preferirono non tramandare l’intero patrimonio orale. Quel tanto che c’è pervenuto è per lo più opera di autori anonimi che usarono la satira contro i cavesi per denigrarli o per meglio rendere il concetto “per sfottere”. Caso volle, scrive l’ Avv. Domenico Apicella, che mentre la satira contro i cavesi consolidava la loro fin troppo pessima fama, rendeva un servigio preziosissimo ai posteri, tramandando la nobiltà delle arti, delle tradizioni, la storia dell’Università della Cava.

Tra coloro che scrissero contro i cavesi non possiamo ignorare Masuccio salernitano al secolo Tommaso de’ Guardati che nel “Novellino” si divertì molto a prendere in giro i cavesi con la novella “Li due cavuoti”, più ancora Giovan Battista Di Pino che, introducendo un famoso “Descurzo sopra un asino” così scriveva: ” Fra Salerno e Napoli è una città chiamata la Cava. La gente di questa altro non ha, se non di tessere tele di lino e murar castella, palagi, case e cessi per tutto il regno, e la maggior parte di essa è di sì grossa pasta ch’un carnasciale sarebbe assassinato da monna Quaresima se non avesse alcun di loro che comparisse nelle farse (per dirla a nostro uso) o ne le commedie (parlando all’antica), o alcuno che li contraffacesse, imperò che non solo qui a Napoli, ma per tutto il regno, anzi per quasi tutta l’Italia, le commedie che si fanno nel Carnasciale senza un personaggio che rappresenti alcuni di questi de la Cava, han sapore di rancido, perch’essi sono eredi di burgensatico de le Atellane, che facevano ridere alla sgangherata gli uditori del tempo antico”.

Ciò significa che i cavesi si recavano fuori Cava a recitare farse carnevalesche e che avevano creato una vera e propria maschera o personaggio buffo che, probabilmente anche altri teatranti utilizzarono, introducendola nelle proprie rappresentazioni allo scopo di far ridere.

Ulteriore prova di questo singolare costume è contenuta nelle farse di Vincenzo Braca che, sebbene non abbiano grande valore letterario, sono un prezioso documento storico e filologico dal quale si desumono informazioni che altrimenti sarebbero andate perdute. Se è dunque vero che i cavesi si esibivano dentro e fuori i confini della città è presumibile che si organizzassero, che si formassero dei gruppi e che questi prima di scendere a Salerno o recarsi a Napoli si esibissero a Cava, principalmente nel Borgo dove era il centro commerciale e amministrativo.

Dalla ricerca condotta negli anni Settanta (nel secolo scorso, ndr) è emerso che l’uso di organizzare gruppi di farsajoli o, come ci spiegava il nostro maggiore informatore il sig. Antonio Mignone, “carnevaletti”, non era e non è tuttora scomparso. L’ultimo carnevale cavese molto simile a quello che dovette essere quello descritto da Braca fu da me documentato nella località Santa Anna, frazione di Cava nel 1975.  Scomparso fra il 1977 e il 1979, questo gruppo è riapparso nei giorni del Carnevale del 1996 col nome di “A Vicchiarella” non a caso fondato e guidato dal famoso Antonio Mignone. Antonio Mignone è un cittadino cavese di modeste origini, carpentiere e agricoltore del casale di Sant’ Anna, fin da giovanissimo seguiva il padre nelle manifestazioni popolari esibendosi in canti, tammurriate e macchiette.

La sua creatività non ha limite, è un improvvisatore nato e un attore dalla grande capacità interpretativa, accompagnandosi con la tammorra esegue ogni genere di improvvisazione. Il suo sogno era quello di dare vita ad un gruppo di farsajoli alla maniera antica e sembra vi sia riuscito.Così come descrive Giovan Battista di Pino, da Sant’Anna scendeva al borgo un gruppo di maschere, che si esibivano in piazza duomo eseguendo tammurriate di svago e di corteggiamento, tarantelle e contrasti che si concludevano con la “disfida” fra tammurrari in un’atmosfera di sfrenata coralità.

Il Carnevale cavese inizia come è nella tradizione campana il 17 gennaio, festa di santo Antonio Abate con le “vampe” su cui, un tempo era bruciata la vecchia. Fin da questo momento “ ‘o masto ‘e festa”, cioè il maestro di cerimonia o capo gruppo, si dava da fare per organizzare la squadra e il corteo delle maschere, la banda musicale e la batteria di tammorre.

Il numero dei componenti doveva essere almeno di cinquanta elementi, ad ognuno dei quali il masto, secondo le capacità, il costume e l’età, assegnava una funzione e un posto. Sulle indicazioni ricevute i “carnevaletti” provvedevano a proprie spese per il costume e gli accessori. Le prove erano segretissime e si tenevano in luoghi appartati, talvolta nell’oratorio parrocchiale o nei locali della congrega.

L’ultima domenica di Carnevale e il martedì grasso la squadra scendeva al Borgo, faceva sosta in piazza Duomo, in piazza San Francesco, sfilava lungo i portici chiedendo, secondo la antica consuetudine “‘nferte e veveraggi”.

I questuanti, quasi sempre uomini vestiti da donna, tendevano ai passanti e ai commercianti un grosso paniere. Parte delle cibarie ricevute erano consumate dal gruppo, il denaro, detratte le piccole spese, era dato in beneficenza alle famiglie meno abbienti del casale di provenienza. Era un carnevale contadino, semplice, senza orpelli e pretese fatto, come diceva don Antonio Mignone, ” per fantasia”.

Nell’ultimo carnevale da me documentato, qualcosa di contemporaneo era filtrato, tant’è che il Mignone relegava i vari Sandokan, Tarzan, Batman ecc. in fondo al corteo e le definiva maschere “ mondane”. Nell’insieme il corteo aveva conservato i travestimenti e la struttura originaria: apriva il “masto” in abito nero, giacca a code (‘o fracchisciasso) con bottoni d’oro (‘a buttunera), cilindro, ghette, bastone con un grosso pomo infiocchettato di nastri colorati col quale dava il tempo, seguivano nell’ordine:

Pulcinella con doppia gobba, il “coppolone” adorno di nastri colorati, recava in mano la scopa o il bastone,

la Vecchia del Carnevale: un uomo in abiti da donna che recava sul davanti un fantoccio di donna, la cui testa sembrava uscirgli dall’addome rigonfio, la donna incinta che rappresentava la madre terra e la fertilità,

il nobiluomo: un individuo grottescamente abbigliato che scimmiottava il portamento dei cortigiani, il cui significato era la protesta sociale contro i privilegi, contro l’arroganza della nobiltà e di tutta la classe predominante, seguivano tre gruppi: contadini, caprai, popolane che formavano la classe dei lavoratori e degli schiavi, che in quella occasione si concedevano il privilegio altrimenti impossibile di sollevare i capo e in virtù della maschera la voce, alcune di queste maschere dall’aspetto ripugnante come vecchie dal volto rugoso, coperto di protuberanze e peli, portavano al collo collane di aglio che secondo la tradizione serve ad allontanare i malefici.

I bambini, spesso portati in trionfo che rappresentavano i non iniziati e i vivi col potere di spaventare i morti, i macchiettisti che davano spettacolo recitando e cantando facezie licenziose, il monacone simbolo del potere ecclesiastico che era beffeggiato e bastonato e ricompariva come sciocco nella confessione del carnevale morente, la monaca che in una singolare pantomima fingeva di essere una verginella, ma finiva per accoppiarsi con Pulcinella, con la vecchia del carnevale e con i diavoli, la quaresima: uno spilungone con un enorme pancione che era preso in giro come “quaresima secca a panzuta” simbolo delle tempo delle vacche grasse e di magro, delle privazioni e della astinenza sessuale, i militari che in una caotica pantomima fingevano di arrestare processare e condannare un povero innocente. Seguivano alcune categorie particolari: prostitute, ladri, guappi, il barbiere, il cacciamole (dentista).

Il posto d’onore spettava agli sposi che rappresentavano la famiglia, essi erano collocati in uno spazio protetto da una schiera di questuanti, erano l’unico elemento in positivo dell’insieme, da tenersi fuori dal luogo della profanità, i diavoli che talvolta avevano le maschere dei governanti ed erano bastonati e lapidati.

Concludevano: la morte con la falce in mano, i fantasmi, i diavoli e la Zeza, infine la banda e la batteria dei tammurrari.

Mascherarsi nelle società integrali ancora significa assumere un duplice travestimento: fisico per essere altri e psicologico per entrare in un ruolo e in una dimensione che diversamente sarebbe impossibile. Per effetto della maschera “avviene allora che l’individuo non distingua più fra la maschera e il suo significato, tenda bensì ad identificare valore e sua rappresentazione simbolica. (A. Manzo: Cultura e storia nella formazione della commedia dell’Arte” Bari 1973).

L’analisi del Carnevale cavese condotta nel 1975 evidenziò che la tradizione si era conservata abbastanza integra in tutte le caratteristiche tipiche del mascheramento: l’individuo che si maschera è: “ (…) l’individuo che inconsciamente soggiace alla trasformazione di un io diverso, attraverso cui stabilisce un rapporto “altro” con la realtà stessa in cui è costretto a vivere. Ecco, dunque che nel momento in cui l’uomo si maschera esce fuori della quotidianità (…) ora con grida, ora con suoni, canti, danze, dà sfogo a tutte le passioni represse, anche se sa bene che domani, lo smascheramento lo ricondurrà a contatto con la realtà”.

Alla maschera sono legate molte libertà cui l’individuo inconsapevolmente si abbandona: parola, gesto, facoltà di scegliersi un compagno. Ora accade, ancora oggi che: “ (…) nel Carnevale tutte le libertà possono trascendere. E’ dunque importante lasciare all’uomo il ruolo incondizionato di gestire il mascheramento ed i diritti da lui derivanti:

  1. diritto di ricevere una offerta o una vittima,
  2. diritto di prendere una offerta o una vittima,
  3. libertà di parola e azione,
  4. libertà di scegliersi un compagno. (…) (7)

Ecco la ragione per cui nel carnevale alcune maschere hanno un ruolo determinante, inconsapevolmente esse assolvono ad un dovere connaturato.  Un tempo, la vittima era un animale da cortile o un ovino, poi lo divennero tutti gli animali domestici che dopo il sacrificio erano mangiati dalla intera comunità.

La libertà di parola, invece, dava alla maschera il diritto di dire tutto ciò che altrimenti sarebbe stato impossibile, di qui l’uso di affidare alle maschere la protesta e il nascere di maschere ben definite, che nel tempo consolidarono, come nel caso di Pulcinella, il diritto di essere portavoce presso il governo delle proteste e delle istanze del popolo.

La maschera, però servì anche a nascondere le nefandezze e le bizzarrie che si sarebbero volute fare in contrapposizione al Cristianesimo, che, per esempio, sancendo il digiuno quaresimale, scatenò l’esigenza di divertirsi e dimenticare, prima di iniziare il periodo d’astinenza, i guai, le preoccupazioni, le solitudini e i problemi del passato e del nuovo anno di lavoro e sacrifici.

L’uso di abbigliarsi con abiti stravaganti nasce nell’ottocento, quando con maggiore consapevolezza il Carnevale entrò a far parte della “moda” piuttosto che della tradizione, allora si assistette alla nascita dei grandiosi apparati di Venezia e Viareggio, senza dire di Rio che merita un capitolo a parte. Qui l’elemento primitivo ha fatto luogo al fenomeno del consumismo e della coreografia fantasmagorica che solo a tratti emerge sotto forma di satira.

Il Carnevale qualunque sia e dovunque sia festeggiato culmina sempre con enormi e luculliani banchetti durante i quali si dà sfogo a tutta l’avidità immaginabile, a farla da padroni sono i maiali e i derivati, nel napoletano uno dei dolci tipici è il sanguinaccio una sorta di crema a base di sangue di maiale che richiama alla assunzione del sangue delle vittime dei sacrifici pagani.

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