L’attualità politica italiana non può dirsi noiosa, priva di spunti. Si presta alle riflessioni dotte dei politologi, offre materiali al teatro della satira, motiva il dissenso degli antagonisti, giustifica l’astensione degli indifferenti e la contestazione degli sfottuti.
Il denominatore che ne accomuna le ragioni è la crisi dei partiti e la sfiducia verso i loro capi che ne avevano promesso una diversa funzione accentrando sul loro carisma il rapporto diretto con gli elettori.
Il progetto che avrebbe dovuto soppiantare le forme di espressione della vecchia partitocrazia non è riuscito con la rivoluzione liberale annunziata da Silvio Berlusconi e si è arenato nella versione riformista di Matteo Renzi fermato in mezzo al guado di un PD dilaniato da questioni di identità. Né finora è arrivata a maturazione, pronta all’uso, la proposta “Cinque Stelle” sperimentata come alternativa elettorale, ma incompiuta come formula di rappresentanza socio-culturale riconoscibile e deputata a governare. Ne danno testimonianza le infelici esperienze non solo di Roma Capitale, ma di altri Comuni piccoli e medi conquistati e travolti dalla quotidianità amministrativa, come nei casi di Parma e di Quarto Flegreo.
Dal quadro generale della situazione si percepiscono sia sentimenti di rottura con il leaderismo avulso dalla dialettica dei partiti sia la voglia di partecipazione dal basso prima di conferire deleghe senza vincoli di rappresentanza di valori e di interessi sociali. Queste istanze si colgono nell’arcipelago del centrodestra nel quale per la prima volta si parla di primarie di coalizione che piacciono alla Lega, a Fratelli d’Italia ed altri spezzoni ex PdL e di area cattolica, mentre non piacciono a Berlusconi che, in passato, li ha federati con Forza Italia per raggiungere la massa critica necessaria al conseguimento delle sue vittorie.
Le stesse inquietudini verso l’uomo solo al comando sono alla base degli scontri interni al PD con prospettive di mutazione della sua genesi di partito nato da culture e tradizioni diverse, orbitanti nelle aree politiche cattolica e comunista. Perciò, non si può non riconoscere che c’è del calore nel travaglio che accende il dibattito politico nei tre schieramenti che si contendono il consenso degli italiani, anche se spesso si sfocia nel turpiloquio del linguaggio superficiale, ma genuino, dei social net-work.
Ciò che appare incerto è l’approdo della fusione elettorale dei ceti sociali in movimento. Al momento prevale il gusto della politica in pillole, immaginata sulla “caduta degli dei”, ossia sul calo del carisma dei capi, sulla rinascita della passione per i partiti e sulla rivincita della militanza e delle sue élite.
Ai sogni non ci sono limiti, soprattutto nei passaggi epocali, ma il dubbio resta sui vizi e le virtù della partitocrazia degli eletti dal popolo e dell’oligarchia dei cooptati dal capo. Chi può dire quale fra le due forme di governo garantisce più o meno meritocrazia o scade in mediocrazia?