scritto da Eugenio Ciancimino - 23 Agosto 2025 11:06

Delitto Borsellino: resistenze, sillogismi e sistemi di potere

Non sappiamo cosa avesse in mano Borsellino e quali fili dell’alta tensione stesse per toccare, sta di fatto che Palermo sulle vicende appalti piange sulla morte di quattro magistrati

Suggestioni, sillogismi e realismi si rincorrono nelle inchieste fatte, promosse od in itinere nella ricerca delle causali dell’uccisione del giudice Paolo Borsellino. Sia che si parli di “vendetta postuma” di mafia, di “causali politiche” o del dossier “appalti, mafia e politica”, si tratta di ipotesi ed affermazioni prospettate dentro o fuori i processi già celebrati che finora non hanno dato un’identità ai veri mandanti del delitto.

Mancano motivazioni reali ed impellenti configurabili in contesti di interessi vivi, al di là di generici e significanti aggettivi, su cui si sono pronunziati ex magistrati di alto rango, Giancarlo Caselli e Roberto Scarpinato, e cimentati grandi firme del giornalismo mafiologico.

Sul punto va registrato anche il punto di vista di Antonio Di Pietro, ex PM icona di “tangentopoli”, il quale, in una intervista rilasciata al Corriere della Sera, ritiene “che Borsellino sia stato ucciso non tanto per le indagini già fatte, ma per la maxi inchiesta che stava avviando: una ‘Maxi Mani Pulite Siciliana’, perché le cosche mafiose stavano investendo miliardi nelle imprese edili del Nord”. Argomento sul quale la Commissione parlamentare antimafia intende avviare un approfondimento sulla base dei rapporti portati avanti dai Ros dei Carabinieri, Mori e Di Donno, tenuti in considerazione da Paolo Borsellino e non dalla Procura di Palermo.

E non si comprende la permanente contrarietà di coloro che, prospettando altre ipotesi alternative, ne avviliscono i contenuti. Perché, secondo il loro assunti, i due citati ufficiali dei CC, pur avendo intrattenuto trattative di intelligence con esponenti di cosche mafiose praticate in tutto il mondo, non avrebbero saputo prevenire le stragi del 1993 dei Georgofili e di Via Palestro, anzi sarebbero state “diretta conseguenza delle (suddette) trattative”. Come dire, con un ardito sillogismo, chi ha fallito la missione nel 1993 non è credibile neanche il suo precedente operato investigativo. Più sofisticata l’angoscia manifestata dall’ex Procuratore della Repubblica di Palermo, ora parlamentare del M5S, sull’occultamento di “causali politiche, che – a suo dire – se rivelate avrebbero fatto saltare il sistema”.

In un contesto di pluralità di poteri è legittimo chiedersi quale sistema di illegalità o di illecite parentele operanti all’interno di ciascuno di essi avrebbe optato per il pollice verso. Le citate “causali politiche”, che potrebbero celare la tessitura di un ordito golpista o di poteri occulti, non sono storicamente utilizzabili come presupposti del passaggio dalla Prima alla seconda Repubblica dovuto, viceversa, al sistema di una legge elettorale, il “Mattarellum”, piuttosto che agli atti di terrorismo di stampo mafioso, cui darebbero credibilità alcune procure.

Restano sospesi e senza risposte i sistemi di esercizio sia del potere giudiziario che economico. Il primo si è rinforzato, nonostante le crepe denunziate da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ed i timori di quest’ultimo: “mi uccideranno se i miei colleghi lo vorranno”.  Mentre il debutto della mafia in borsa e nel sistema delle imprese operanti nei grandi appalti  pubblici e privati era un allarme da non sottovalutare per l’inquinamento ed il controllo (che poi si è verificato) dei santuari dell’economia finanziaria.

Non sappiamo cosa avesse in mano Borsellino e quali fili dell’alta tensione stesse per toccare, sta di fatto che Palermo sulle vicende appalti piange sulla morte di quattro magistrati. Sul punto appaiono incomprensibili le resistenze di togati, disattendendo un vecchio detto siciliano: “aria netta ‘n aviri paura ri troni”.

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