Nascondimenti e svelamenti nelle armonie musicali di “Sonetti fosforescenti” di Silvio Aman
Già nella prima lirica ci si prospetta una fuga di stanze, come si usava nelle magioni signorili dei secoli passati. Anche le presenze umane spesso si indovinano soltanto, eleganti figurine quasi disincarnate, tra nascondimenti e svelamenti
Interessante il recupero, già denunciato programmaticamente nel titolo, della forma e della misura metrica del sonetto (usata per ottenere una griglia riguardo a cose evanescenti) in una poesia assai lontana dal realismo, quella di Silvio Aman, che nei suoi Sonetti fosforescenti (Puntoacapo Editrice, 2022) dà vita a un luogo mitico, accarezzato da un’onda di armonie musicali.
In tal modo il poeta da un lato sembrerebbe inserirsi in quella linea che si potrebbe chiamare del manierismo, già presente nel secolo passato (in realtà è come se l’autore scrivesse senza appoggiarsi a nulla; non è tanto la corrente letteraria a occuparlo, bensì qualcosa di lontano; più appropriato parlare di un garbato estetismo, per il quale egli rifugge dall’ ordinarietà. Queste poesie, in somma, tolgono la sostanza per far sì che l’effetto delle fugaci parvenze si avvicini allo stemma in filigrana del suo essere); dall’altro sceglie un recinto protettivo, la forma chiusa e armonica del modulo del sonetto, si diceva, appartenente alla più rigida tradizione letteraria, che è il corrispettivo metrico dell’hortus conclusus da lui cantato (come Giampiero Neri, un poeta da lui amato, Aman à conoscenze botaniche precise, da naturalista, e ciò confligge efficacemente con l’ indefinitezza di questo “poeta del non so che”).
Al di fuori del recinto metaforico (“la mia visione dentro i suoi recinti” si legge in Nel parlare con lei), in una “selva misteriosa”, «indugiano ombre lunghe» (osserva Giancarlo Pontiggia, che è direttore della collana ANCILIA in cui la raccolta ha visto la luce, in 4° di copertina) con il portato di un’angoscia inquietante, quella dell’inconnu. Ma anche nell’attesa desiderante che l’imponderabile irrompa.
Molte le occorrenze dei termini e dei versi che rientrano nel campo semantico di “sconosciuto”: “fra un plesso in apparenza sconosciuto”; “portando nel profumo un senso ignoto”; “l’enigma repentino dell’immagine”; “e poco svela a un’accurata indagine”; tutti versi prelevati da Conferenza. Anche il lessema “straniero”, che ritorna spesso nel libro, rientra in questo spettro di significati e in questa imagerie: “estraneo, “strano”, “forestiera” leggiamo in una bellissima sequenza dove “una bottiglia messaggera” viene “buttata da una nave forestiera”.
A questo risultato cospira anche la scelta di allontanare le cose nel tempo preterito, quasi a sterilizzare e disseccare le vicende e i personaggi, evitando l’irruzione dell’istintualità: significativa in tal senso la prima strofe di Non vere dee: “…Ma noi non siamo per le vere dee,/piuttosto per le finte, per quelle forme quiete e in pietra avvinte/al sogno delle nostre tarde idee”; e ciò nonostante il desiderio e la difficoltà “di amare e farsi amare” (L’acquarello di Clizia), come capita a quella “donna senza amanti” che appare nella parte conclusiva di Partenogenesi della tappezzeria; mentre altrove persino un “luogo” inanimato viene definito “illibato”. A specchio, nella pagina allato, un’altra donna “abdica sterile”. E si legga l’ultimo verso de Il catalogo: “vedere i sorprendenti senza amarli”. All’enigma rimanda anche “il volto-sfinge dell’ignota” de Il notturno di Dora. A proposito di questa e di altre composizioni occorre rilevare che il poeta presta voce ad altri personaggi, ma l’angoscia vive anche in queste maschere separate che si confessano a perdifiato, in queste prosopopee dove a dire io non è il soggetto lirico.
Il giardino, mot-clé che offre il titolo anche a una sezione, “Giardini privati”, è un’eterotopia, come il museo, secondo Michel Foucault. Il giardino peraltro non è assunto con certezza, e causa un’oscillazione fra piacere e dispiacere; il senso è, pure, che da questo luogo edenico l’essere umano è stato cacciato.
Già nella prima lirica ci si prospetta una fuga di stanze, come si usava nelle magioni signorili dei secoli passati. Anche le presenze umane spesso si indovinano soltanto, eleganti figurine quasi disincarnate, tra nascondimenti e svelamenti: “Ma tu non sai chi mai potrà scoprirti” (Aster alpinus). Queste eleganti figurine suggeriscono l’idea di un’Arcadia letteraria.
Si tratta di ragazze attuali, ci tiene a precisare Silvio, che trovandosi in un posto reale sentono nostalgia, poiché vi si sovrappone un ricordo, un desiderio, un lampo che giunge non si sa da dove. A loro non piace nulla, perciò sono “prese” da un certo non so che, cioè da qualcosa che intreccia un aspetto del mondo esterno con quello che avvertono. Se non fossero strane e raffinate, godrebbero delle cose viste, ma non è così, perché le tormenta l’oscillazione dalla noia a lampi di incomprensibile entusiasmo. Queste ragazze sono amiche dell’eclissi, cioè di un certo misterioso defalco. Si tratta insomma di uno spostamento dalle cose alla vaga e dissolvente parvenza del ricordo, in un’ambivalenza di attrazione/repulsione.
Di fronte a tale sfuggente realtà, dove ogni cosa appare “strana” (“una strana presenza” troviamo nella già citata Laureata), l’io lirico sembra in preda a una “perplessità crepuscolare”, che lo immerge in “un’aria fatta attonita”. Una realtà che si manifesta perlopiù come profumi, “essenze” (Vetrina innamorata), che lasciano una “scia gentile”, “profumi di parole immaginabili”; ombre: “per l’ombra varia e strana nel sentire”; musica: “quasi in rinfresco i sorrisi di un Lied”; “o avvolta da un motivo di vocali”; e con felice sinestesia “a qualche profumato e strano suono”.
Una siffatta perplessità del cuore umano si manifesta, a livello espressivo, nelle frequenti fratture e cesure che danno spazio a trasalimenti voluttuosi e rompono, anche in funzione ritmica, la fluidità dell’endecasillabo, soprattutto nelle interrogazioni inevase che lasciano un senso di imprecisato, “d’indeciso” (Lisière), “un suono in cui si alterna il sì e il no” (La ninfa), il tutto in una “luce …esitante”. Imprecisabile (e impraticabile) è la verità dei sentimenti: “non so, non l’ho sentita più com’era”; e l’essere umano si sente “smarrito” (Caspar David Friedrich), avvertendo “qualcosa di felice e reticente”.
Un nascondimento dietro un “velo” coinvolge anche “i bicchieri Baccarat/nascosti da un’immagine-cortina”, che “riflette i fiori di cui nulla sa”. Dove l’espressione “nulla sa” indica la difficoltà a decrittare la realtà, anzi qualcosa a mezzo tra sogno e realtà, in cui appaiono “luoghi trasognati”, come per una perdita di punti di riferimento, e si traduce nella scelta di figure che esprimono appunto l’incomprensibilità: vedi “freddezza incandescente” (Eclissi di sole con l’amica); “vicino allontanante” (La ninfa). Contrasti che sono anche coloristici: “la voce della neve nella sera”. Molti sono i preziosismi stilistici nella silloge: inizi ‘ a seguire’, come a proseguire un discorso ininterrotto (Laureata, Non vere dee), dove compare ancora una volta un “aroma”.
C’è dunque un alto tasso di letterarietà in questa poesia dove il soggetto lirico si fa coevo dei personaggi, con essi dialoga, ne indaga con profondi scandagli i più nascosti recessi dell’animo. Tutto questo e altro ancora in componimenti che sono anche la metafora della scrittura, non disdegnando l’andamento dialogico, e che lo stesso scrivente definisce alla maniera di Catullo “graziose nugae” (la parola Grazia ricorre anche in un titolo), tutto questo, dicevamo, viene detto in uno stile dolce, un trobar leu aggiornato, con grande purezza formale, in una partitura metrica rigorosa, nell’italiano della tradizione aristocratica, con l’uso di un lessico ricercato, ricco di termini seletti, desueti, ma anche di forestierismi, in un’eleganza aristocratica e vorrei quasi dire schifiltosa che risente della frequentazione degli ermetici e denuncia la presenza di una signorile sprezzatura.
Fabio Dainotti







