InKognita, free tekno e cospirazioni in cassa dritta
InKognita, Ana Nitu racconta del suo primo libro in un'intervista esclusiva. Intervistare Ana è stato un grande privilegio
Intervistare Ana è stato un grande privilegio. Mi sento particolarmente legata ad Ana, perché siamo due grandi giovani legate alla cultura del sound system. Siamo due ragazze nate nella provincia terrona, dell’agronocerinosarnese più precisamente, e abbiamo fatto anche lo stesso liceo. Ma chi è Ana e di cosa parla il suo racconto? Ana Nitu è attiva nella controcultura di FreeParty è laureata in Estetica, scrittrice e fotografa. Incognita K è la sua prima pubblicazione, nata dalla costola di una fanzine autoprodotta.
Cosa ti ha spinto a partorire questo libro?
.Questo libro nasce come una fanzine cucita a mano, mossa dall’esigenza di riappropriarsi della propria storia e del proprio immaginario. L’esistenza stessa di questo libro pone le sue radici in una volontà di autonarrazione politica e personale. Infatti, il libro è, prima di tutto, un racconto generazionale che vive e parte da un’esigenza di cristallizzazione. Sui FreeParty esiste già una bella produzione culturale, anche di natura storica e antropologica. La differenza di Incognita K però è che prende forma a partire dalla scena presente italiana e campana, dal nostro tempo, dalle nostre esperienze vive e vissute. Anche perché gli ultimi tre anni sono stati segnati dal decreto anti-rave, il 633-bis, quindi c’è stato inevitabilmente un prima e un dopo il famigerato Witchtek di Modena… Ecco, Incognita K prende le mosse soprattutto da lì, da questa realtà distopica e opprimente che negli ultimi anni ha incalzato sempre di più. Quindi il libro parla di questa controcultura – e non sottocultura, attenzione –, dei suoi viaggi, delle sue lotte e delle sue resistenze in un contesto storico ben preciso che ha ulteriormente criminalizzato la festa. Diciamo che ha compiuto un moto inverso: non dalla teoria alla prassi, ma dalla prassi alla teoria, partendo dall’immanenza del vissuto, della carne.
Il posizionamento del libro è politico perché risponde, per l’appunto, a un preciso quadro storico che ha portato ad un cambiamento nel mondo dei FreeParty. Ci vuoi spiegare meglio questo?
Ci sono tre tappe storiche fondamentali che vanno inquadrate e che hanno decisamente colpito, sì, i FreeParty, ma non solo… La prima è il periodo della pandemia e il suo seguito; la seconda è il 663bis, ovvero il decreto anti-rave che, di fatti, ha reso i FreeParty punibili con il carcere; la terza è il nuovo decreto sicurezza che, in qualche modo, il 633-bis aveva anticipato. Ecco, questi tre eventi insieme hanno determinato un disegno politico ben preciso che ha esacerbato tutte le tecniche psicopolitiche basate sul controllo, sulla repressione e sulla violenza come monopolio dello Stato e che ogni giorno diventano sempre più imperanti. Incognita K ha preso forma proprio in questo arco temporale che, nonostante la gravità della situazione, ha comunque visto esplodere la magia della reazione, soprattutto con la nascita di Smash Repression, questo contenitore meticcio nazionale e intersezionale che non ha unito solo le tribe e le crew tekno, ma anche tutte quelle collettività e soggettività che, con grande lucidità e immediatezza, hanno saputo intravedere nel 633-bis il pericolo di un attacco più ampio a qualsiasi esperienza di autodeterminazione. Infatti, non è un caso che un governo di destra abbia scelto la festa come primo bersaglio da attaccare. La Storia si ripete prima come tragedia e poi come farsa, non è la prima volta e non sarà l’ultima: dai riti dionisiaci ai Baccanali, per arrivare all’Inghilterra del periodo thatcheriano e degli anni Novanta, passando per la Francia dei primi anni Duemila, la Storia pullula di divieti e repressioni della festa e della festività intesa come stato dell’essere, prima ancora che come sound e bpm… Colpire la festa significa colpire, per contenere, una forza dirompente, un moto perpetuo di liberazione e trasformazione della quotidianità, sebbene sia un’intensificazione di quest’ultima. La musica non è mai stata solo musica perché si è sempre configurata come un agente di cambiamento che ha avuto la capacità di impattare interi tessuti sociali, creando campi energetici ed espandendo quelli della libertà e dell’autonomia. E non è un caso che la maggior parte delle innovazioni musicali che hanno rivoluzionato e sovvertito il corso lineare degli eventi ci siano arrivate da chi ha sempre vissuto ai margini o fuori dagli schemi dell’ordine e del potere costituito, dalla legalità istituzionalizzata… In questo senso i FreeParty sono anche delle tecniche di guerriglia artistico-musicale dove, prima di tutto, si sperimentano diversi modi di relazionarsi, di costruire nuove comunità di senso e di abitare, inteso come le differenti modalità attraverso cui l’essere umano riesce a permanere nel mondo. Il 633-bis è stato concepito in maniera molto furba e strategica perché l’invasione dei terreni e degli edifici era un reato già esistente, solo che è stato inserito all’interno dei reati contro l’incolumità pubblica. È una prerogativa di un governo di destra quella di creare il problema e di “risolverlo”, in un certo senso, per segnare goffamente una battuta di arresto rispetto ai governi precedenti accusati di lassismo, cacciando fuori il pugno di ferro, all’occorrenza… Soprattutto attraverso lo strumento della gogna pubblica, che prima di agire a livello giudiziario, agisce a livello mediatico, infatti i FreeParty sono stati pre-criminalizzati ancora prima che il governo emanasse il decreto, grazie alle dirette live di alcune testate giornalistiche che hanno contribuito a creare l’atmosfera perfetta per una lapidazione in piazza pubblica. È anche per questo che successivamente con Smash abbiamo ri-portato le feste nelle città, dalle periferie ai centri, riappropriandoci anche dello strumento delle street parade oltre a quello delle occupazioni temporanee… Come ha detto una mia amica, Gaia, durante la prima presentazione di Incognita K, la questione non è più quella di (ri)portare la militanza nei rave, ma raverizzare i militanti.
Figura 1 Sound of Freedom, capodanno 24/25
Nel libro, la questione del “do-it-yourself” ha un ruolo centrale. Puoi spiegarcela meglio?
Il DIY non è un semplice slogan, è parte integrante dell’anima dell’underground, ed è nato ed esploso soprattutto con la scena punk. Ma è parte integrante anche dell’anima dell’inKognita, perché per me è stato fondamentale a livello personale, è stata una chiave che mi ha aiutato a cambiare la semantica della mia esistenza. Il periodo della pandemia mi aveva lasciato preda di un vuoto che non riuscivo più a riempire, fin a quando non ho incontrato le feste. Ogni volta che andavo in festa mi rendevo conto che tutt* contribuivano a creare quell’esplosione conflittuale di libido, intesa propria come energia psichica complessiva. A un certo punto ho avuto un’epifania perché mi sono ricordata che con le nostre mani possiamo dare forma alla materia secondo i nostri desideri. Il DIY ha significato per me avere una presa diretta e ostinata sulla realtà. È stato come diventare veramente autori della propria storia senza farla scrivere a qualcun altro, delegandogli il protagonismo inteso come autodeterminazione e forza agente… Se tutto fuori inneggiava alla distruzione, le feste e il DIY mi hanno spinto alla costruzione. Ed è certamente una questione pratica, fisica, ma anche alchemica, magica, perché DIY significa anche riscoprire la propria creatività e spiritualità, nonché la costruzione di legami basati su logiche totalmente diverse che riabilitano anche il rifiuto… Quindi il DIY non è solo un’alternativa, è l’alternativa… fare, costruire, intervenire attivamente sulla realtà ordinaria delle cose, creando.
4+Già sfogliando l’indice ci si rende conto che coesistono più voci nel libro, come mai questa scelta?
Infatti il nome sulla copertina lascia il tempo che trova perché all’inizio, prima che il libro inizi effettivamente, c’è anche un disclaimer che sottolinea che la lettura deve avvenire sempre al plurale. Incognita K è prima di tutto un’orchestra dissonante, un circo psichico autorganizzato, per citare Hakim Bey… è una polifonia. E non poteva essere diversamente perché l’intento era di costruirla come una festa: chiassosa, mai singola, sempre una moltitudine. Non è facile collocare il libro in un genere perché oscilla tra il romanzo e il saggio, infatti contiene racconti, interviste, restituzioni, divulgazione culturale, saggi quasi scientifico-filosofici, fotografie, flyer… Ogni testo ha la sua voce, il suo ritmo, il suo colore, ed è stato interessante vedere come ognuno, partendo dalle proprie esperienze personali, sia arrivato in un territorio comune dove siamo coagulati tutti in un nucleo di reciproco riconoscimento. E devo dire che, in questo, il dialogo con Agenzia X è stato importante perché mi ha ricordato quanto siamo importante lavorare sul e attraverso l’immaginario. C’è sempre bisogno di storie, forse oggi più che mai, proprio per far rivivere e prosperare l’immaginario, che poi, come il desiderio, è ciò che tiene insieme il piano utopico con quello del reale. In sintesi, diciamo che Incognita K, così come la festa, si dà come un dono, ovvero all’insegna della reciprocità e della corresponsabilizzazione. Il dono implica il mantenimento del ritmo del dare e del ricevere, e questo può avvenire solo nella forma della polifonia.
Figura 2 Sound of Freedom, capodanno 24/25









