Trent’anni addietro, esattamente il 18 febbraio 1988, in un campo del quartiere periferico della Magliana, a Roma, venne trovato il corpo semicarbonizzato di Giancarlo Ricci, un ex pugile, pregiudicato e violento, divenuto il ras di quel degradato agglomerato urbano.
Pregiudicato, cocainomane e violento, il Ricci aveva imposto le sue prepotenze a tutti i commercianti e cittadini della zona vivendo alle loro spalle; nessuno aveva il coraggio di contrastarlo proprio perché il Ricci, privo di freni inibitori, non agiva come un capo-quartiere dei vicoli napoletani, almeno nei tempi andati, il guappo che aveva una sua etica che spaziava dall’amministrare una specie di giustizia spicciola, fatta anche di riparazione di torti subiti dai più deboli da parte dei più forti, fino al taglieggiare i commercianti in una microsocietà che, in carenza di potere costituito, aveva necessità di sopravvivere anche grazie alla presenza del guappo nel quartiere; il pugile della Magliana, invece, imponeva la sua volontà esclusivamente nel suo interesse.
Tanto emerse dal processo che giudicò e condannò alla pena di trent’anni di carcere il suo assassino, il 31enne Pietro De Negri, di origini sarde, con una figlia di sette, che gestiva un negozio di toelettatura per cani, in via della Magliana 253 ed era anche cocainomane: il “Canaro”, come veniva chiamato, era anche un piccolo spacciatore (arrotondava così le sue entrate) pregiudicato in quanto, intimidito e coinvolto dal Ricci in un furto con scasso ai danni di una gioielleria, episodio del quale si era assunto la responsabilità, aveva scontato la pena di un anno come complice, ma non aveva voluto rivelare la identità del vero responsabile, che così l’aveva fatta franca, con la speranza che il Ricci gli avrebbe restituito la metà del ricavato, come aveva promesso.
Uscito dal carcere il toelettatore, oltre a dover affrontare l’ostilità di tutti i commercianti del quartiere per il furto, ricevette il diniego dall’ex pugile, che lo umiliò in pubblico, scatenando così in De Negri un desiderio di spietata vendetta che eseguì con crudeltà inaudita; con un pretesto attrasse il Ricci nel suo laboratorio, lo ingabbiò e, letteralmente, lo fece a pezzi, torturandolo per ore, aiutandosi con la cocaina per tirarsi su.
Non è possibile indicare le atrocità commesse, che il De Negri non ha mai smentito, anzi in un memoriale scritto durante la detenzione, non solo le confermò, ma aggiunse di non essersi mai pentito di ciò che aveva fatto, liberando il quartiere dal dominio di un prepotente che nessuno aveva potuto fermare. Il Canaro venne condannato a trent’anni di carcere, ma per buona condotta ne scontò effettivamente solo sedici, e di lui se ne sono perdute le tracce.
Questo è l’episodio che ha ispirato Dogman, il forte film di Matteo Garrone, girato nel casertano, premiato quest’ anno al Festival di Canne, ottenendo 10 candidature ai Nastri d’Argento, ambientato oggi, con nomi e circostanze diverse, ottimamente interpretato da un attore semisconosciuto, il bravissimo Marcello Fonte, perfettamente calato nel ruolo del “Canaro” Marcello, che da solo riesce a neutralizzare, in maniera tanto atroce, l’ex pugile bullo e violento Simone, interpretato da Edoardo Pesce.
La trama del film è molto diversa dall’episodio originale, pure se altrettanto forte, ma mitigata dalla maestria del regista che, comunque, ti tiene avvinto dalla prima all’ultima inquadratura, in un susseguirsi di scene e avvenimenti che sembrano dosi sempre più forti di polvere da sparo inserite in un contenitore che sembra sul punto di esplodere da un momento all’altro per liberare l’umanità da quella perenne violenza che tutti noi subiamo; in effetti il film rappresenta lo stereotipo di una società fatta di deboli, la maggioranza degli uomini, taglieggiati da pochi violenti, incarnati dall’ex pugile, che non ha il coraggio o le risorse per arginarli e viene da essi continuamente sopraffatta, ma spera in un riscatto o almeno in una vendetta che qualcuno sia in grado di fare, nella maggior parte dei casi solo un sogno utopico; nello specifico le cosa vanno diversamente in quanto essa arriva proprio da un mite, esasperate dalle violenze e brutalità che subisce, un piccolo e insignificante Davide che riesce a trovare la forza e l’astuzia per neutralizzare il grosso, preponderante Golia, riducendolo a un mucchietto informe che poi porta in giro nel quartiere per mostrarlo agli altri tartassati, i quali, purtroppo, in quel momento sono o sembrano inesistenti. Sintomatica, tra le altre, la scena nella quale il Canaro, caricatosi sulle spalle il cadavere bruciacchiato del pugile aguzzino, va in giro per mostrarlo a tutti, ma non trova in giro nessuno.
Di Matteo Garrone, il regista, c’è poco da dire, basta ricordare i suoi più celebri film, tra i quali “Gomorra”, “Il racconto dei racconti”, “L’Imbalsamatore”, per sapere di chi si parla.
Dogman è un ottimo film, non per tutti: comunque coloro che hanno lo stomaco forte non possono perderlo.