scritto da Carolina Milite - 07 Febbraio 2015 10:08

Su femminicidio e matricidio a colloquio con lo psichiatra Guido Milanese

“Sono cambiati i modelli sociali, la figura maschile è più debole e spesso nella donna si verifica un corto circuito”. Così su femminicidio e matricidio, due fenomeni drammatici da un po’ di tempo all’ordine del giorno sulle pagine della cronaca nazionale, esordisce Guido Milanese, primario neuropsichiatra e docente presso la SUN –Seconda Università di Napoli.  Il dottore Milanese ha al suo attivo una serie di pubblicazioni scientifiche e svolge la sua attività professionale, come ama dire, in tutte le sue azioni quotidiane, anche in ambito politico, dove il suo essere medico psichiatra lo aiuta molto, poiché gli permette di leggere nel retro pensiero dell’interlocutore. “Sono stato l’unico a dire ai tempi del patto del Nazareno che dietro la stretta di mano c’era la reciproca volontà di prevaricare l’altro”, ci ha confidato, con una digressione di attualità politica il dottor Milanese, già deputato della Repubblica.

Professore, perché assistiamo a questa crescita esponenziale di atti efferati nei confronti delle donne che spesso sfociano nella loro uccisione? Indubbiamente oggi viviamo in una condizione della nostra società che vede il degrado dei valori tradizionali. Storicamente la famiglia rappresentava uno degli elementi fondamentali dove nascevano le comunioni d’intenti. Oggi il nucleo familiare ha perso questo elemento che faceva da forte collante, e quindi tutta la valorialità che era intrinseca alla rappresentazione tradizionale della famiglia come era intesa oggi si è disgregata, per cui alcuni disvalori sono entrati in campo e hanno creato delle attrazioni centrifughe rispetto a quello che era il nucleo familiare portante.

Lei ritiene che ciò sia dovuto alla trasformazione della figura femminile negli ultimi decenni?

Assolutamente sì. Ricollegandomi agli attuali eventi dello scontro epocale tra la nostra cultura occidentale e la cultura dell’islamismo in generale per poi arrivare alle frange deviate, ritengo che sia proprio la donna l’elemento fondamentale. Oserei dire che un recupero rispetto agli elementi fondamentali di discussione con l’islamismo può essere portato avanti non tanto dall’occidentalizzazione rispetto ai popoli islamici, ma proprio grazie alle donne islamiche che vivono situazioni di aggressione psicologica continua. Un recupero può avvenire attraverso la possibilità che le donne possano intraprendere lì un processo di rivoluzione culturale che le ponga in una condizione di pariteticità. Questo consentirebbe poi un avvicinamento delle due culture. In occidente le donne hanno rappresentato questa rivoluzione culturale negli ultimi decenni. Questi fenomeni di aggressività che avvengono molto spesso e che sfociano in femminicidio sono le sacche di resistenza di quella cultura egemonica dell’uomo rispetto alla donna, che ancora oggi non riesce a prendere atto di questa rivoluzione culturale. Questi uomini aggrediscono le donne perché non riescono a lasciarsi dietro questo processo di dominio culturale e di appartenenza egemonica della donna rispetto all’uomo. Proprio perché certi processi, grazie alla rivoluzione culturale della donna, hanno portato a questa nuova stagione di “illuminismo” nell’ambito della nostra civiltà occidentale, c’è chi per le proprie debolezze intrinseche ancora  non riesce ad adeguarsi.

Le aggressività e i femminicidi avvengono sostanzialmente per questo, un retaggio culturale antico che ancora fa resistenza. La donna ha la capacità di saper soffrire molto più dell’uomo, di saper essere più costante nella propria progettualità. Il problema è che è cambiato il modello sociale: in ogni era della nostra umanità e in ogni situazione geografica del mondo ci sono dei cambiamenti epocali. Oggi noi viviamo in un’evoluzione sociale talmente avanti dal punto di vista culturale in cui gli elementi fondamentali sono quelli capaci di adattarsi all’ambiente. Nella società aborigena in cui la predazione era fondamentale, la forza fisica era una rappresentatività dell’intelligenza. Oggi, invece, uno dei parametri fondamentali di valutazione dell’intelligenza è la capacità di adattarsi alle situazioni e all’ambiente. Allora è chiaro che in un mondo come quello odierno, in cui il parametro principale di valutazione dell’intelligenza è la capacità di adattamento, e chi ha più della donna questa capacità?

Dalla disamina che sta facendo, la figura maschile appare, anzi, è la più debole. Si può fare qualcosa per aiutarli, a cominciare magari dalla famiglia?

Assolutamente sì. Le nostre mamme e nonne erano donne di una struttura e di una forza morale incredibili e riuscivano, pur stando dietro le quinte, a guidare e dominare i processi della famiglia. Queste nostre donne avevano la forza d’animo di sapere che dovevano produrre dei processi di educazione dei figli, di governo dell’economia familiare. Essendo la società maschilista, l’uomo riusciva a pareggiare questo ruolo.

L’uomo e la donna sono sostanzialmente paritetici in tutto, con caratteristiche diverse. Il salto fondamentale è quello di sapere che non si sta giocando una partita in solitaria, ma insieme, perché soltanto insieme si potrà arrivare al successo finale. Questo è naturalmente un processo graduale che di fatto sta avvenendo, tranne alcune sacche di resistenza di tipo subculturale e submorale. In questi casi viene fuori la propria debolezza estrema, l’aggressione dell’uomo sulla donna avviene perché in quel momento lui tende a ripristinare un processo di equilibrio e pariteticità secondo le caratteristiche che sono le sue perché in quel caso lui ha già perduto la partita sul piano culturale, affettivo, emozionale e quindi non gli resta che la forza fisica.

E’ possibile fare una classificazione dei soggetti per età, istruzione, professione etc.? E’ valido questo metodo di analisi?

Mentre fino a qualche tempo fa vi erano dei luoghi comuni rappresentati dalla cultura, pensiamo soprattutto al meridionale focoso che non sopportava l’allontanamento della propria donna, questo è oramai superato perché è un processo che appartiene alla debolezza emozionale dell’individuo in quanto tale, che non è legato a classi sociali, all’età, alla professione. Il processo dell’aggressività non avviene attraverso il circuito della mente ma attraverso quello delle emozioni. Si ha un corto circuito per cui l’individuo diventa talmente debole e fragile dal punto di vista emotivo che non gli resta che l’aggressione che quindi non è un processo intellettivo razionale perché se passasse attraverso la ragione anche il più stupido capirebbe che non risolve in tal modo il proprio problema.

Sta quindi dicendo che mentre le donne non hanno paura di manifestare le proprie emozioni, l’uomo è più pudico e reticente.

E’ esattamente così. La donna ha sempre avuto l’amica del cuore con cui confidarsi, una capacità di sapersi aprire e manifestare le proprie emozioni; viceversa l’uomo ha sempre avuto un processo di difesa, di incapacità ad esprimere la sua emotività ad un altro individuo maschio perché questo sarebbe potuto passare come una debolezza o addirittura una latente omosessualità. Il femminicidio o qualsiasi altra forma di violenza sulle donne è legato a questa condizione di debolezza dell’individuo in quanto tale ed è un processo che tende oggi ad essere più ampio e più manifesto perché c’è spirito di emulazione, in un soggetto fragile, di quello che viene trasmesso attraverso i media.

Io sono un grande estimatore della cultura contadina dei nostri nonni. Era una cultura fatta di pochi principi ma sani, erano delle regole semplici da cui non si derogava. I nostri nonni avevano la pudicizia di non parlare di determinati argomenti di fronte ai bambini e questo era un elemento di salvaguardia importantissimo: se il bambino sente un’aspra discussione tra i genitori ritiene che quella sia una cosa giusta e normale, se vede un’aggressività tra essi ritiene che quello sia il processo normale, perché il bambino cresce per processi d’identificazione. L’insegnamento fondamentale ai bambini e ai giovani avviene attraverso l’esempio. La parola sta perdendo sempre più peso, una volta la parola data era il sancire dei fatti, oggi invece vediamo anche in politica quanto poco conti, il giorno prima si dice “stai sereno” e quello dopo è cambiato lo scenario. Il politico così come il genitore e chi altri rappresenta un ruolo importante nella nostra società ha il dovere di essere esempio vivente di quello che dice perché è elemento di guida e come tale non può tradire i propri principi e soprattutto chi fa riferimento a lui. Allora dobbiamo recuperare questa credibilità sul piano sociale, politico, genitoriale ed educativo in generale.

Il dramma delle nostre scuole è determinato dalla incapacità dell’insegnante di essere autorevole prima che autoritario, di essere esempio. Un insegnante di valore è rispettato dai ragazzi in maniera totale perché essi lo percepiscono. Oggi c’è un processo di velocizzazione importante, la comunicazione odierna fa sì che quello che prima richiedeva tempi lunghissimi oggi è a portata di un click. Questo velocizza molto di più i tempi e la capacità di maturazione mentale dei giovani. L’inghippo sta nel fatto che alla velocizzazione mentale non corrisponde un’uguale maturazione emozionale-affettiva, vuol dire che i nostri giovani hanno un cervello da adulti ma un cuore da bambini, sono velocissimi nel processo mentale, ma poi vengono schiacciati da se stessi perché il loro sviluppo emotivo non va di pari passo con quello mentale. Questo comporta una serie di insicurezze e incertezze, di dubbi e difficoltà a cui, se reagisci con la tua capacità intellettiva, riesci a fare grandi cose, se rispondi col tuo livello adolescenziale fai una grande fesseria. I nostri ragazzi oggi sono in grado di fare grandi cose ma anche grandi fesserie con la stessa facilità.

E’ questa la fragilità del nostro sistema sociale. Ci manca la gradualità dei nostri padri, viviamo tutto con estrema velocità e con un sistema concorrenziale dannosissimo perché non c’è nulla di più nevrotizzante della concorrenzialità. I nostri genitori avevano maggiore difficoltà ad affrontare un problema, i mezzi erano ridotti e le difficoltà maggiori, però ciò non rendeva deboli, nensì fortificava perché si sapeva che ad uno sforzo corrispondeva poi un sicuro risultato. Oggi invece ai nostri giovani appartiene l’insicurezza per il futuro, per cui anche se fanno le cose con più comodità, essi sano che il loro impegno non avrà risultati certi e sicuri; questo provoca fragilità, dubbi, insicurezze, fobie, meccanismi di corto circuito. Se poi ci si aggiungono anche gli usi e gli abusi della nostra società, in un soggetto che ha una velocità mentale forte ma una debolezza emozionale di fondo, si provoca un’accelerazione di questi processi.

Lei ha usato la terminologia “corto circuito” per indicare un gap emotivo della persona. E’ allocabile anche ai casi di matricidio questa patologia emozionale?

In ognuno di noi esiste l’essere buono e l’essere cattivo, convivono il bene e il male. La differenza tra uomo e donna è legata ad una piccolissima virgola del genoma che ci rende diversi, così accade anche nella struttura della personalità. Una persona che viene definita sostanzialmente buona non è detto che non abbia scheletri nell’armadio, ma nel processo di equilibrio tra bene e male prevale casomai per un’infinitesima virgola il bene, così quello che è definito un bruto, un mafioso non è detto che non abbia momenti di bontà ed altruismo. Quindi non c’è l’assolutezza dell’essere buono e dell’essere cattivo.

Questi processi che definiamo come “follia” sono figli di un attimo di perdita di lucidità, la madre che ammazza il proprio figlio è vittima di un delirio lucido del momento, cioè di un processo che in quel momento fa sopravvenire l’atto folle ma non c’è una strutturazione di fondo di follia predeterminata. In queste donne prevale sostanzialmente l’egocentrismo, dei processi di interesse personale portato all’estrema ratio. In questo processo psicologico della donna, l’incapacità di sopportare una difettualità del proprio figlio (il caso di Cogne) o una difettualità comportamentale di un bambino ribelle, quale poteva essere il piccolo Loris di Ragusa, diventa incapacità di saper gestire un processo perché si guarda tutto solo dal proprio punto di vista personale. Questo può determinare che in un momento di particolare debolezza in cui l’individuo perde le staffe e vi è di fondo la pochezza emozionale del soggetto, si crei un processo di anaffettività, l’incapacità cioè di sentire emozione rispetto a quello che si fa; questi gesti di follia si compiono in attimi di anaffettività, di mancanza di emozione rispetto all’atto che si compie, e qui vi è il vero processo di dissociazione dell’individuo, non quando sclera ma quando non sente emozione in quello che fa.

Quindi la madre che sgrida il bambino o che gli dà uno sculaccione non è un individuo pericoloso.

Esattamente. Non è quello il processo che porta al gesto di follia. Esso avviene nel momento in cui c’è una condizione di mancanza di emozione e sentimento.

Ma l’atto folle, compiuto nel momento di dissociazione delle personalità, verrà poi dimenticato?

Le rispondo mettendo a paragone due casi emblematici già citati prima: Cogne e Ragusa. C’è una profonda differenza fra i due, ammettendo che ci sia una colpevolezza della madre nella seconda circostanza, ma la mia è una valutazione psichiatrica e personologica delle due mamme. La mamma di Cogne è una donna di grande lucidità mentale, dominava nel suo nucleo familiare, ma in lei vi è un delirio lucido, è una paranoide ossia in lei vi è una patologia di fondo che non si manifesta, un buco nero che aveva manifestato nei confronti del figlio. Lei non ha rimosso il fatto, sa ciò che è accaduto ma lo ritiene, nel suo nucleo delirante, un atto normale. Per me è una persona che potrebbe nuovamente commettere un atto grave. Nel caso della madre del piccolo Loris siamo di fronte ad una donna diversa, fragile che ha un vissuto di traumi e situazioni disagiate alle spalle; in tal caso, è avvenuto un corto circuito, paragonabile a quello che accade nei femminicidi, quando l’uomo debole aggredisce la compagna nel momento in cui sente di non poterla più gestire e dominare, rispetto a un bambino forte, ribelle, capriccioso che le tiene testa. Lei probabilmente ha avuto questa reazione in un momento in cui non riusciva a gestire o dominare il figlio. Sono due casi e due mamme completamente diverse.

Anche la reazione dei familiari è stata diversa?

Sì. A Cogne si sono stretti attorno alla Franzoni, a Ragusa invece hanno preso le distanze da Veronica.

E’ possibile presentire il pericolo di questi atti folli?

Sono solito usare un mio pensiero per definirli: sono gesti che un attimo prima non li si è commessi e un attimo dopo non li si commetterebbe. La prevedibilità di questi episodi è impossibile, perché non siamo di fronte a situazioni chiaramente patologiche. Forse nella famiglia di Cogne probabilmente, con  una valutazione adeguata, qualche buco nero si poteva già percepire. A Ragusa si è trattato di un momento di corto circuito in cui la fragilità della donna ha ceduto di fronte a chissà quale ribellione del bambino.

Concludendo, possiamo dire che il femminicidio è un dramma sociale mentre il matricidio è un dramma familiare?

L’infanticidio è un dramma che investe tutto il nucleo familiare di appartenenza, è qualcosa di insuperabile dal punto di vista familiare. Il femminicidio è una problematica sociale, la stiamo vivendo in maniera allargata proprio per il disadattamento di un segmento del maschilismo che ancora non riesce a cedere le armi e a capire che soltanto attraverso la capacità di saper crescere insieme si può giocare un ruolo fondamentale nella nostra società. Così come nel lavoro, anche nell’amore c’è bisogno di rispetto e di sapersi reinventare ogni giorno per il piacere di riscoprirsi. Questo fa bene non solo alla coppia ma anche a se stessi, in quel modo si rinvigorisce l’emozione profonda dell’amore.

Lei mi sta dicendo che la parola chiave è “amore”…

Sì, ma non l’amore cristallizzato e iconografico, bensì l’amore dinamico che si costruisce volta per volta, momento per momento. Del resto, quello dell’amore è un termine omnicomprensivo che racchiude tutta una gamma di sentimenti come amicizia, rispetto, piacere di stare insieme.

Diplomata al liceo classico, ha poi continuato gli studi scegliendo la facoltà di Scienze Politiche. Giornalista pubblicista, affascinata da sempre dal mondo della comunicazione, collabora con la rivista Ulisse online sin dalla sua nascita nel 2014, occupandosi principalmente di cronaca politica e cultura. Ideatrice, curatrice e presentatrice di un web magazine per l'emittente web Radio Polo, ha collaborato anche col blog dell'emittente radiofonica. Collabora assiduamente anche con altre testate giornalistiche online. Nel suo carnet di esperienze: addetto stampa per eventi e festival, presentazione di workshop, presentazioni di libri e di serate a tema culturale, moderatrice in incontri politico-culturali.

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