scritto da Mariano Avagliano - 04 Maggio 2018 12:46

Sergio Fabbrini Direttore della LUISS School of Government: “Gli italiani devono diventare più responsabili”

Ci incontriamo in Università, alla LUISS di Roma, dove sono cresciuto e dove c’è respiro pieno e concreto di campus internazionale. Sergio Fabbrini è Direttore della LUISS School of Government e docente di Scienza Politica e Relazioni Internazionali presso la stessa Università. Editorialista del “Sole24Ore”, è uno dei massimi esperti, per competenza e capacità di analisi, di politica europea e relazioni internazionali.
Suo follower sul Sole, gli rivolgo, in poco tempo, alcune domande sul presente e futuro dell’Europa.

Che cosa è l’Europa?

Quando parliamo dell’Europa ci sono due prospettive: la prima, quella predominante, afferma che l’Europa è un tema di politica estera e come tale riguarda il Ministero degli Affari Esteri e non i cittadini. La seconda, afferma invece che l’Europa riguarda non solo la politica internazionale ma la politica interna e tutti noi cittadini perchè con la sua nascita si fuoriesce dalla prospettiva degli stati nazionali a cui per secoli siamo stati abituati. Con l’integrazione europea gli stati nazionali diventano parte di un sistema di interdipendenze in cui ogni scelta fatta in un paese membro ha effetti sugli altri paesi all’interno dell’Unione, allo stesso modo in cui scelte fatte negli altri Paesi hanno conseguenze su di noi. Attraverso la mi attività intendo contribuire a formare una classe dirigente che sia consapevole di questo. Invece, basta guardare all’ultima campagna elettorale in cui si è assistito a slogan e posizioni contro questa interdipendenza. E ogni volta che questo accade, ogni volta che trionfano forze che rifiutano questa interdipendenza chi va al governo deve poi confrontarsi con il contesto di relazioni in cui il nostro Paese si trova. E di qui crisi e traumi e, di conseguenza, ogni volta dobbiamo poi affidarci a dei tecnici per ristabilire l’equilibrio tra l’Italia e gli altri paesi membri dell’Unione Europea.

L’interdipendenza è un valore?

L’interdipendenza può esser valutata sul piano empirico, in termini di fatti, e poi sul piano normativo. Empiricamente, l’interdipendenza nasce dal fatto che la complessità dei problemi che ci troviamo ad affrontare richiede soluzioni che gli stati nazionali, da soli, non sono in grado di attuare. Pensiamo ad esempio alla fluttuazione dei mercati finanziari, ai problemi ambientali, ai problemi dell’immigrazione. Una serie di politiche pubbliche si sono riversate sugli stati che si sono resi conto di non farcela. Persino la Gran Bretagna, paese con una significativa storia imperiale e coloniale, sta scoprendo che ci sono problematiche che non possono essere affrontati restando da soli. L’interdipendenza, quindi, non è un bene o un male ma è un dato di fatto e una classe dirigente che si considera tale deve partire dai fatti altrimenti non ha legittimazione a essere tale.
Se questo è il fatto, ovvero se la complessità in cui viviamo oggi è molto più significativa rispetto agli inizi del novecento dobbiamo non solo fare una ragione di questa interdipendenza ma anche usarla per indirizzare le scelte politiche e strategiche che i vari partiti e gruppi intendono portare avanti.
Dobbiamo pensare a come l’interdipendenza può essere utilizzata per garantire equità sociale e innovazione tecnologica e nello stesso tempo anche protezione. Perché ci sono gruppi sociali che sono avvantaggiati e capaci di sfruttare l’interdipendenza – le famiglie ad esempio che possono viaggiare e mandare i figli a studiare in altri paesi europei – e altri che non ce la fanno. Il tema, quindi, è anche come una classe dirigente si adopera per collegare e connettere coloro che spingono per l’interdipendenza con coloro che non hanno gli strumenti per coglierne le opportunità. Ad esempio un Paese deve investire molto sull’istruzione, sulla formazione per fare in modo che il valore dell’interdipendenza possa esser compreso, e poi sfruttato, da tutte le fasce della popolazione e in particolar modo da quelle più deboli.

Quale fotografia del nostro ruolo di paese fondatore a seguito delle elezioni del 4 marzo?

L’Italia ha tante virtù ma ha il vizio a volte di essere un Paese troppo retorico. Parlare di Europa da noi è quasi come parlare di un tema astratto, come se l’Europa fosse la soluzione o la fonte dei nostri problemi. Siccome non abbiamo sistemi educativi efficienti facciamo in modo che, attraverso l’integrazione, i nostri ragazzi vadano altrove. Invece, dobbiamo sviluppare un rapporto meno retorico e più concreto. Quello che è successo il 4 marzo è un esempio del fatto che ci troviamo a pagare i costi di un Europa percepita in modo retorico. L’eurozona così come è costruita penalizza i paesi del sud dell’Europa mentre avvantaggia quelli del Nord: il patto di stabilità e crescita è in effetti basato su un modello di political economy fatto di industrie esportatrici, di un mercato del lavoro molto disciplinato, di sindacati organizzati in maniera verticistica, di elementi che vanno bene all’Olanda, alla Germania, ai Paesi del Nord e non invece a paesi come l’Italia, la Francia, la Spagna e la Grecia. Il 4 marzo ci siamo resi conto che l’Europa produce effetti asimmetrici: la reazione sovranista in Germania di Alternative fur Deutschland ha preso il 13% mentre da noi i sovranisti, basati sulla richiesta di uscire da un sistema visto come penalizzante, hanno preso la maggioranza.
E’ chiaro che non può essere accettabile un sistema che penalizza alcuni paesi rispetto ad altri. L’Italia, ad esempio, ha chiesto che venisse introdotta un’assicurazione contro la disoccupazione giovanile: non potendo usare spesa pubblica nazionale, per vincoli europei, la proposta tendeva alla creazione di una fiscal capacity europea grazie alla quale finanziare interventi a favore della disoccupazione giovanile nell’Unione Europea. Gestita con criteri molto stringenti, finalizzati a favorire la riqualificazione e la formazione dei beneficiari, questa assicurazione avrebbe rappresentato un aiuto per i giovani del nostro Mezzogiorno che avrebbero fatto scelte politiche differenti guardando all’Europa non come matrigna bensì come sostegno per le loro esigenze. I Paesi del Nord che non volevano questa assicurazione, con il tema dell’immigrazione scoprono che si rende necessario fare un accordo con la Turchia di Erdogan – in una fase in cui è del tutto discutibile fare accordi di quel tipo – e l’Italia si è trovata a gestire da sola questa tematica essendo, per geografia, principale approdo nel Mediterraneo. Ecco, il punto è che se noi passassimo da una logica retorica a una logica basata sui fatti riuscendo a definire, aldilà di destra e sinistra, quali sono gli obiettivi che ci interessano realmente e su cui puntare i piedi, credo che ci troveremmo in condizioni migliori.

Quale soluzione, noi cittadini italiani ed europei, possiamo attuare per scongiurare questo eccesso di sovranismo contro l’interdipendenza e l’integrazione europea che sono parte della nostra storia?

Per certi aspetti gli italiani devono diventare più responsabili. Il rapporto tra debito pubblico e PIL è del 132% e non è tanto una questione di limite imposto dall’Europa ma è risultato del fatto che siamo incapaci di governare la nostra spesa pubblica, che distribuiamo risorse in alcune regioni – specie al sud – che sono fuori controllo, che abbiamo un sistema amministrativo troppo vecchio, che abbiamo una corruzione diffusa non più accettabile, che il baronismo penalizza la competitività del nostro sistema universitario, che ci sono imprese che sopravvivono grazie ad aiuti pubblici, che, in sintesi ci sono elementi di arretratezza frutto delle nostre inefficienze, delle nostre incapacità, delle nostre omertà. Non è possibile che siamo il secondo debito pubblico del Mondo perché quel debito viene pagato dai nostri figli, ed è, ad esempio, incredibile che non si riesca a venire capo del fatto che il Comune di Roma vive in condizioni di permanente e sistematico default e viene aiutato attraverso la fiscalità generale e non è in grado di gestire una città che è così rilevante dal punto di vista culturale. Quello che dobbiamo fare, anzitutto, è un esercizio di verità. Dobbiamo essere molto meno populisti e chiamare le cose col loro nome. Dobbiamo entrare laddove le cose non funzionano come ad esempio l’istruzione e l’amministrazione che non possono andare in questo modo. Pensiamo anche ai fondi strutturali: come è possibile che i paesi dell’Europa dell’Est, appena entrati, beneficiano di fondi strutturali che usano per produrre sviluppo economico e noi abbiamo regioni del sud che ancora oggi non riescono ad agganciarsi allo sviluppo europeo anzi le differenze in alcuni casi tra sud e nord si sono anche accentuate dalla fine della seconda guerra mondiale.
Per di più i giovani più brillanti vanno via e quindi è evidente che c’è un’immigrazione intellettuale a rovescio: una volta uscivano quelli con la valigia di cartone oggi escono laureati che vanno a cercare lavoro al nord, in Germania e in Gran Bretagna.
Occorre un patto della classe dirigente di questo Paese per dire smettiamola di andare avanti tutti contro tutti e creiamo le condizioni per rilanciare il Paese a partire da alcune regioni.
Detto questo, poi c’è l’Europa che così com’è non può funzionare: non è sostenibile politicamente perché è un Europa che non riesce ad avere una politica anticiclica capace di intervenire in momenti particolare depressione e crisi. Bisogna lavorare e avere giovani di talento preparati – nostro obiettivo alla School of Government della LUISS – che possano diventare classe dirigente capace di andare a Bruxelles e a Francoforte ed esercitare un ruolo rilevante come questo Paese si merita.

Ha iniziato a scrivere poesie da adolescente, come per gioco con cui leggere, attraverso lenti differenti, il mondo che scorre. Ha studiato Scienze Politiche all’Università LUISS di Roma e dopo diverse esperienze professionali in Italie e all’estero (Stati Uniti, Marocco, Armenia), vive a Roma e lavora per ItaliaCamp, realtà impegnata nella promozione delle migliori esperienze di innovazione esistenti nel Paese, di cui è tra i fondatori. Appassionato di filosofia, autore di articoli e post, ha pubblicato le raccolte di poesie “Brivido Pensoso” (Edizioni Ripostes, 2003), “Esperienze di Vuoto” (AKEA Edizioni, 2017).

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