Via D’Amelio 28 anni dopo: attualità del pensiero di Paolo Borsellino
“Sono ottimista perché vedo che verso la criminalità mafiosa i giovani, siciliani o no, hanno oggi un’attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quaranta anni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di combattere di quanto io e questa generazione ne abbiamo avuto”.
E’ questo l’ultimo messaggio di speranza lasciato da Paolo Borsellino, come suo testamento spirituale, in una lettera incompiuta indirizzata ai ragazzi di un liceo di Padova.
L’aveva iniziato a scrivere la mattina del 19 luglio 1992, undici ore prima della strage di Via d’Amelio in cui ha perso la vita insieme a 5 dei sei agenti di scorta: Agostino Catalano, Walter Cusina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina.
Rileggerla oggi, a 28 anni di distanza (“quando la gioventù le taglierà il consenso anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo”) è motivo di una riflessione più impegnativa del rito della commemorazione.
Al di là delle vicende giudiziarie e delle verità nascoste e da accertare, resta l’interrogativo di una rivoluzione culturale generazionale auspicata e non compiuta se permangono situazioni socio-politiche che inficiano la credibilità delle istituzioni statuali e della stessa magistratura stressata da correntismo e collateralismo politico già in essere nei giochi di Palazzo ed ora esploso con il cosiddetto caso Palamara.
Spiegando “Cosa Nostra” in una “lezione” ai ragazzi di un altro liceo di Bassano del Grappa denunziava le carenze dello Stato nel contrastare e prevenire l’inserimento dei boss nel mondo del potere politico e di quello burocratico per mettere le mani sulle “leve della distribuzione della ricchezza” costituita da risorse pubbliche: “non ha fatto sostanzialmente nulla, delegando a magistrati e poliziotti di occuparsi essi soli di mafia”.
Lo stesso concetto lo aveva ribadito davanti al CSM, ostile a lui ed a Giovanni Falcone, dicendo che “la lotta alla mafia non è un affare che riguarda solo magistrati e forze dell’ordine”, come se si trattasse di una guerra del tipo “guardie e ladri”, perché interessa tutti e coinvolge l’opinione pubblica. Sulle entrature dei boss nei palazzi della politica la testimonianza che ci ha lasciato va oltre i freddi atti giudiziari. Rispondendo ad una specifica domanda dei ragazzi del liceo di Bassano specificava che la impossibilità di configurare responsabilità penali non cancella ambigue contiguità: “la magistratura può fare solo un accertamento di carattere giudiziale”; sono altri poteri che “dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi, che non costituivano reato, ma rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica”.
Coniugando i verbi al presente se ne deduce l’attualità di fare “pulizia al loro interno” da parte delle istituzioni politiche e dei partiti.
Si tratta di un recupero di immagine, ma soprattutto di fiducia nel mezzo di una profonda crisi economica e sociale in cui la mafia sia nella versione parassitaria che in quella imprenditoriale può giocare un ruolo di supplenza delle istituzioni e di accaparramento di risorse pubbliche e private.
Nelle rievocazioni dell’anniversario prevarranno, come è giusto che sia, le narrazioni dei depistaggi e delle devianze attribuibili ad agenti di pezzi dello Stato, la cui infedeltà si presume che fosse nei pensieri di Paolo Borsellino trascritti nella sua Agenda rossa la cui scomparsa fino a quando non se ne conosce la sorte lascia invariato il sospetto della persistenza della cultura della omertà praticata da uomini dello Stato per coprire vecchie e nuove indicibili compiacenze.
Si tratta di un fenomeno tristemente sperimentato e sfociato in trattative. Alla mafia, per antica tradizione, piace praticarle con il favore del silenzio delle coscienze. Senza fare rumore, perché per i suoi obiettivi la “lupara” è un arma estrema, essendo comunque politicamente scorretta nella prospettiva di inserirsi nei gangli dei poteri costituiti.