scritto da Eugenio Ciancimino - 11 Maggio 2019 12:00

Salone del libro, l’antifascismo si è fermato a “Bella ciao”

foto tratta dal profilo Fb

La politica intesa come cultura del confronto non esce bene dalla vicenda relativa all’espulsione dal Salone del libro di Torino della casa editrice Alta Forte di Francesco Polacchi.

I suoi attori principali, il Sindaco del capoluogo piemontese, Chiara Appendino, ed il Presidente della Regione, Sergio Chiamparino, hanno invocato l’intervento della Magistratura prefigurando un’ipotesi di apologia del fascismo per la vicinanza dell’editore a Casa Pound. Stante la presenza negli stand di una vasta e documentata gamma di pubblicazioni sul fascismo e sul nazismo ed i loro protagonisti nasce il sospetto che il cartellino rosso nei confronti di Polacchi configuri di fatto un ostracismo di tipo politico elettorale per Matteo Salvini.

“Non è una rivalsa” sostiene Chiara Appendino. In verità, il contenuto del libro-intervista al leader della Lega non rientra nella casistica delle leggi Scelba del 1952 e Mancino del 1993; riguarda passioni, hobby  ed amori dell’autore. La pietra dello scandalo che ha suscitato indignazione e motivato l’esposto alla Procura della Repubblica è l’appartenenza di Polacchi a Casa Pound e non si capisce come mai gli sia stato concesso lo spazio poi revocato considerato che nelle precedenti edizioni hanno fatto mostra di se, senza clamori, pubblicazioni edite da AR di Franco Freda e da Settimo Sigillo.

Il che proietta ombre sugli effettivi ardori antifascisti svalutati, per l’occasione, da alcuni per opportunismo elettorale e da altri per un momento di celebrità intellettuale ferma a “Bella ciao”, divenuto un ritornello per chi non sa andare oltre nella ricerca di nuove forme di totalitarismi che non hanno alcuna parentela con il fascismo storico. Vedere in esso un “fenomeno che si ripete, come se fosse una categoria universale” è “una astrazione”.

Sono parole di Giorgio Amendola che l’antifascismo lo ha praticato da combattente e vissuto in maniera drammatica. La proibizione di opinioni è di per se una forma di fascismo prodotto e condiviso dall’antifascismo di coloro che “non hanno voglia né di pensare né di conoscere” come osservava Leonardo Sciascia nel Marzo del 1975 in occasione del massacro, fino alla morte, dello studente di destra Sergio Ramelli, quando era in voga lo slogan “uccidere un fascista non è un reato”: aggiornato, nel passaggio dalle piazze ai salotti letterari, viene gridato nella formula meno virulenta: “il fascismo non è un’opinione è un reato”.

Perciò, al rogo tutti i libri presunti apologetici fra i quali, a ben vedere, per “par condicio” le fiamme non dovrebbero risparmiare neanche il codice penale del 1930, opera dello scienziato del diritto del fascismo storico, Alfredo Rocco,  tuttora in vigore a presidio dello Stato di diritto.

Al di là dei giudizi sul “ventennio”, dietro le irritazioni andate in scena al Salone si pone una questione di onestà intellettuale che va in cortocircuito culturale quando sulla ragione prevalgono “astratti furori”: espressione di Elio Vittorini usata in altra epoca. Come dire che il tempo passa ma non sempre porta buoni consigli.

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