Secondo il giudice della prima sezione civile del tribunale di Milano il quesito referendario sul quale si va a votare il 4 di dicembre va bene così come è formulato; non c’è violazione del diritto alla libertà di voto perché il suo esercizio “non può non riguardare la deliberazione parlamentare nella sua interezza”.
Il che vuol dire niente spacchettamento delle questioni contenute “in un unico quesito” la cui eterogeneità, viceversa, limiterebbe la libertà di opzioni di voto da parte dell’elettore, secondo il ricorso dell’ex Presidente della Corte costituzionale Valerio Onida. Si tratta di uno dei tanti casi in cui gli organi giurisdizionali mettono lingua sull’andamento di vicende politiche, richiamati da una produzione legislativa ambivalente. Al là delle relative interpretazioni giurisprudenziali, nello specifico si scontrano le istanze di una informazione puntuale sui singoli quesiti al fine di potere argomentare risposte di merito e la necessità politica di aggiornare un sistema parlamentare logorato dagli anni.
Il problema nasce dalla scrittura del quesito che riporta il titolo della legge di riforma costituzionale nella quale è stato messo un po’ di tutto, come una sorta di omnibus, o mescolato, in maniera indifferenziata, più argomenti per rendere accattivanti anche quelli non condivisibili, come accade nella nostrana “cianfotta” della cucina contadina in cui si mettono insieme vegetali diversi a prescindere dalla digeribilità dei singoli prodotti e dalle possibili reazioni allergiche di chi ne è consumatore.
Una metafora, questa, che fa capire il travisamento della campagna elettorale su temi incongruenti rispetto agli assetti istituzionali sottoposti a quesito. Da una parte si chiede agli elettori di votare “si” contro la palude della immobilismo e della ingovernabilità e dall’altra parte di dire “no” alle avventure oligarchiche. Le ricadute del voto in entrambi i sensi hanno poco a che fare con le proiezioni introdotte nel dibattito elettorale a proposito del PIL e del mercato del lavoro, che come è universalmente riconosciuto sono determinabili da altri fattori.
Quello che conta è che sulla scheda il “si” ed il “no” espressi contemporaneamente sulla medesima scheda riguardano cinque argomenti ciascuno dei quali configura aspetti e momenti diversi del funzionamento della macchina delle istituzioni. Perché, una cosa è dire “riduzione dei costi delle istituzioni e del numero dei parlamentari”, che è molto accattivante sul piano della propaganda, altra cosa è la proposta della “abolizione del bicameralismo paritario”, dietro il quale si nasconde la revisione delle funzioni del Senato, la cui formazione viene sottratta al suffragio diretto degli elettori e posta in capo ad accordi tra gruppi di potere locali di Regioni e Città.
Gli altri due quesiti riguardano la revisione del Titolo V della Costituzione in merito alle competenze delle Regioni e l’abolizione del CNEL che sta per Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. Non si capisce se si chiede la cancellazione di una sigla o di un organo ausiliario di consulenza delle Camere e del Governo: non se ne parla, né se ne spiega la inutilità e perché non ha funzionato secondo gli intendimenti dei costituenti rispetto alla fondazione della Repubblica sul lavoro ed al concepimento di uno Stato regolatore anche dei rapporti economici. Sul merito qualche parola in più sarebbe stata opportuna per consentire al singolo elettore un voto più informato e consapevole.
Al di là delle omissioni di chi ha formulato il quesito referendario in maniera plurima e della sua legittimazione da parte di un tribunale della Repubblica, resta il dubbio sulla capacità di buona scrittura del legislatore che ha deliberato la riforma. Agli elettori l’ardua sentenza.
Secondo il giudice della prima sezione civile del tribunale di Milano il quesito referendario sul quale si va a votare il 4 di dicembre va bene così come è formulato; non c’è violazione del diritto alla libertà di voto perché il suo esercizio “non può non riguardare la deliberazione parlamentare nella sua interezza”.
Il che vuol dire niente spacchettamento delle questioni contenute “in un unico quesito” la cui eterogeneità, viceversa, limiterebbe la libertà di opzioni di voto da parte dell’elettore, secondo il ricorso dell’ex Presidente della Corte costituzionale Valerio Onida. Si tratta di uno dei tanti casi in cui gli organi giurisdizionali mettono lingua sull’andamento di vicende politiche, richiamati da una produzione legislativa ambivalente. Al là delle relative interpretazioni giurisprudenziali, nello specifico si scontrano le istanze di una informazione puntuale sui singoli quesiti al fine di potere argomentare risposte di merito e la necessità politica di aggiornare un sistema parlamentare logorato dagli anni.
Il problema nasce dalla scrittura del quesito che riporta il titolo della legge di riforma costituzionale nella quale è stato messo un po’ di tutto, come una sorta di omnibus, o mescolato, in maniera indifferenziata, più argomenti per rendere accattivanti anche quelli non condivisibili, come accade nella nostrana “cianfotta” della cucina contadina in cui si mettono insieme vegetali diversi a prescindere dalla digeribilità dei singoli prodotti e dalle possibili reazioni allergiche di chi ne è consumatore. Una metafora, questa, che fa capire il travisamento della campagna elettorale su temi incongruenti rispetto agli assetti istituzionali sottoposti a quesito. Da una parte si chiede agli elettori di votare “si” contro la palude della immobilismo e della ingovernabilità e dall’altra parte di dire “no” alle avventure oligarchiche. Le ricadute del voto in entrambi i sensi hanno poco a che fare con le proiezioni introdotte nel dibattito elettorale a proposito del PIL e del mercato del lavoro, che come è universalmente riconosciuto sono determinabili da altri fattori.
Quello che conta è che sulla scheda il “si” ed il “no” espressi contemporaneamente sulla medesima scheda riguardano cinque argomenti ciascuno dei quali configura aspetti e momenti diversi del funzionamento della macchina delle istituzioni. Perché, una cosa è dire “riduzione dei costi delle istituzioni e del numero dei parlamentari”, che è molto accattivante sul piano della propaganda, altra cosa è la proposta della “abolizione del bicameralismo paritario”, dietro il quale si nasconde la revisione delle funzioni del Senato, la cui formazione viene sottratta al suffragio diretto degli elettori e posta in capo ad accordi tra gruppi di potere locali di Regioni e Città. Gli altri due quesiti riguardano la revisione del Titolo V della Costituzione in merito alle competenze delle Regioni e l’abolizione del CNEL che sta per Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro.
Non si capisce se si chiede la cancellazione di una sigla o di un organo ausiliario di consulenza delle Camere e del Governo: non se ne parla, né se ne spiega la inutilità e perché non ha funzionato secondo gli intendimenti dei costituenti rispetto alla fondazione della Repubblica sul lavoro ed al concepimento di uno Stato regolatore anche dei rapporti economici.
Sul merito qualche parola in più sarebbe stata opportuna per consentire al singolo elettore un voto più informato e consapevole. Al di là delle omissioni di chi ha formulato il quesito referendario in maniera plurima e della sua legittimazione da parte di un tribunale della Repubblica, resta il dubbio sulla capacità di buona scrittura del legislatore che ha deliberato la riforma.
Agli elettori l’ardua sentenza.