E’ fin troppo semplice, forse semplicistico, accomunare la tragedia del crollo del Ponte Morandi di Genova, tecnicamente viadotto Polcevera dell’autostrada 10, con il pure celebre “Ponte dei sospiri” di Venezia, e di tutti gli altri “Ponti dei sospiri” sparsi nel mondo: una rapida ricerca sul web fa scoprire che ve ne sono altri nel Regno Unito, negli Stati Uniti d’America, e nell’America del Sud, meno celebri di quello veneziano.
Ora, con il crollo del 14 agosto 2018 del ponte genovese se n’è aggiunto un altro. Questa è una data da ricordare in quanto, col crollo del Ponte Morandi, è crollata anche un sistema ed una ideologia costruttiva durata oltre cinquant’anni (il ponte era stato inaugurato nel 1967), che, in questo mezzo secolo probabilmente avrebbe avuto bisogno di una maggiore attenzione per una serie di ragioni che cercheremo di illustrare in seguito.
Il sistema di costruzione “Morandi” è stato largamente utilizzato e non solo in Italia, giacché nel mondo ponti di tale fattura se ne contano a centinaia, fortunatamente molti ancora in piedi, ma tanti altri già crollati. Nel mondo, infatti, a fronte di quelli ancora esistenti e funzionanti, i ponti crollati sembra siano stati più di mille, molti dei quali negli Stati Uniti d’America che, comunque, sembra ne abbiano in piedi circa 600mila, ovviamente non tutti costruiti con la tecnica di quello genovese.
Ma vediamo cosa ha di particolare la tecnica costiva dell’ing. Morandi, che iniziò ad ipotizzare e studiare il suo sistema sin dagli anni 30 del secolo scorso.
Un ponte, che sia un ponticello per attraversare un ruscello, oppure una struttura che deve collegare due sponde distanti anche chilometri l’una dall’altra, ha necessariamente bisogno di sostegni sulle due sponde sulle quali posare la campata, e, se a distanza eccessiva, nelle parti intermedie per reggere le varie campate.
Molti sono i metodi di costruzione di ponti tanto lunghi, quello ideato dall’Ing. Morandi è solo uno dei tanti, ed ha precedenti illustri come il ponte di Brooklyn, completato nel 1883 su progetto dell’ingegnere tedesco John Augustus Roebling: è il primo ponte costruito in acciaio e granito ha rappresentato per lungo tempo il ponte sospeso più grande al mondo che, attraversando il fiume East River, collega tra di loro l’isola di Manhattan e il quartiere di Brooklyn a New York.
Il ponte di Brooklyn ha una lunghezza di 1.825 metri, una larghezza di 26, è alto 84 metri e richiese 16 anni per essere costruito, interamente in acciaio e granito: questi sono particolari importanti sui quali torneremo dopo.
Ma vi sono anche altri ponti costruiti con uguale tecnica, quali quello di Williamsburg, di Manhattan, di Verrazzano, il Golden Gate Bridge, tutti negli Usa alcuni di maggiore lunghezza, ma con caratteristiche analoghe: piloni di sostegno in granito, tutti affondati nelle acque dei fiumi, stralli in acciaio: i primi due costruiti circa un secolo prima di quello di Genova, gli altri due all’incirca nello stesso periodo.
La differenza tra questi ponti sospesi, che ancora sono efficienti, è prima di tutto nei materiali impiegati: acciaio e granito, al posto del cemento del Ponte Morandi; vi è poi la maggiore affidabilità e la minore burocrazia che ne agevolano il controllo e la manutenzione, mentre qui in Italia una miriade di leggi, regolamenti e circolari sembrano prevedere lo scibile intero e alla fine, cozzando tra loro, non concludono un bel niente e… fanno crollare tutto, purtroppo anche i ponti.
In qualsiasi opera di ingegneria vi sono punti di forza e di debolezza, come anche nel ponte Morandi, il cui ideatore era un appassionato delle strutture di cemento armato che a suo avviso potevano ben sostituire tutti gli altri materiali fino ad allora utilizzati, come l’acciaio e il granito, in quanto più economici, più facilmente trasportabili e da mettere in opera.
Ma tra i punti di debolezza non sembra fosse stato ben valutata la durata delle strutture di cemento, né la necessità che anche le opere di cemento abbiano bisogno di controllo e monitoraggio continuo, che relativamente al ponte crollato sembra siano stati o carenti o superficiali.
Una delle perplessità che sembra aver colpito molto la pubblica opinione è data dalla fattura degli “stralli”, tiranti che originariamente erano di acciaio e che sembra siano stati poi sostituiti da cemento senza considerare che i cavi di acciaio sono controllabili “ictu oculi” e su di essi si può immediatamente intervenire, mentre su quello di cemento le cose sono più complicate.
Gli studi e le sperimentazioni del Morandi portarono alla elaborazione della tecnica costruttiva del ponte genovese, la quale, se valida cinquant’anni fa, evidentemente dopo mezzo secolo crea qualche problema.
In queste semplici considerazioni non è da sottovalutare il volume di traffico che quel ponte all’epoca avrebbe dovuto sopportare allora rispetto a quello, moltiplicato molte volte, di oggi, e dei pesi dagli autoveicoli dell’epoca, specialmente quelli di grandi dimensioni, rispetto ai grandi Tir di oggi.
In conclusione il ponte crollato era stato costruito per un’epoca completamente diversa da quella attuale, ed era stato progettato per un utilizzo di gran lunga inferiore a quello attuale.
Ma indipendentemente dai dettagli tecnici nei quali non è nostro compito addentrarci, un fatto è certo: il Ponte Morandi è crollato per carenza di monitoraggio e controllo e per la italica faciloneria che ci porta a prendere tutto sotto gamba, che sia la bucatura della gomma di una vettura, o la manutenzione di un pullman di linea o, addirittura, di un ponte, sul quale osservando alcune immagini divulgate dopo il crollo, sembra che addirittura venissero parcheggiate autovetture, che le corsie venissero tranquillamente attraversate da personale tecnico e non: incredibile che un tratto autostradale di quella importanza e con quel volume di traffico venisse così utilizzato.
Ma ora che il guaio è fatto, sembra che tutti si accapiglino per cercare il colpevole e magari trovare il pelo nell’uovo per attribuire responsabilità che certamente ci sono, ma che non si sa bene a chi facciano capo: certamente al gestore, quella Società Autostrade che ha balbettato poche e confuse giustificazioni; ma non sono privi di responsabilità anche i “controllori” vale a dire quelle strutture dello Stato che avrebbero dovuto vigilare che il gestore non fosse inadempiente nei controlli e non si preoccupasse esclusivamente di tenere i conti delle tariffe da aumentare a suo piacimento (anche in questo campo lo Stato ha avuto un ruolo marginale).
Ora c’è il rimpallo delle responsabilità: sembra che Autostrade avesse messo puntualmente al corrente il Ministero delle Infrastrutture e Trasporti di alcune criticità (esisterebbero verbali agli atti), il Ministero smentisce, e nella baraonda che è seguita nessuno si raccapezza più, probabilmente i soli che riesceno a tenere le file del discorso sono i Procuratori delle Repubblica, Valeria Fazio, Francesco Cozzi e l’aggiunto Paolo D’Ovidio: come al solito gli unici di cui ci si possa fidare.
Della politica, Dio ci liberi: tra il Ministro delle Infrastrutture Toninelli che tuona contro Autostrade e avvia la revoca della concessione, il Vice Premier Di Maio che avalla tale revoca, ma “cum judicio”, per dirla con Manzoni, in attesa di capire bene il testo della concessione, la miliardaria penale che una tal revoca comporterebbe, e addentrarsi nei trabocchetti del testo della concessione e in quello del parere dell’Avvocatura dello Stato, tutto sembra un rimpallarsi di responsabilità e competenze, una sorta di partita di ping-pong tra più giocatori che fa supporre che i tempi per decidere saranno come al solito in Italia, lunghi e travagliati.
Frattanto Genova soffre, soffrono e piangono i loro morti i familiari delle 43 vittime del crollo, ma non dobbiamo dimenticare gli sfollati delle abitazioni sovrastate dal ciò che resta del ponte, e nemmeno le varie attività commerciali che gravitavano sotto quel maledetto ponte, e che ora sono ferme in attesa di delocalizzazione.
Frattanto l’unica cosa sensata che resta da fare è la completa demolizione di ciò che resta del ponte Morandi, e riflettere bene su una eventuale nuova costruzione nello stesso posto, nella banale constatazione che oramai i tempi dovrebbero essere maturi per dirottare il traffico su altre strade alternative, pure a percorrenza veloce, come ad esempio la progettata “gronda”, un sistema viario alternativo al ponte crollato, da decenni posta sul tappeto e più volte ostacolata persino dagli attuali nostri governanti, che sembrerebbe l’unica valida alternativa da prendere in seria e urgente considerazione per non bloccare il tutto, compreso l’economia della città.
Ma riusciremo noi italiani a fare un salto di orgoglio e dimostrare, almeno in questa occasione, di non essere le tradizionali lumache che di tutto parlano per poco o niente realizzare?