Nemmeno più ci ricordiamo da quanti anni in Italia abbiamo sviluppato una particolare, cattiva, abitudine di “sparlottare” e “maledicere” del governante di turno.
Il volgo, comunemente, dice “Piove? E allora governo ladro”. L’espressione semplifica, all’ennesima potenza che meglio non si riesce, il significato del discorso che stiamo per intraprendere.
Abbiamo sviluppato, nel corso del tempo, complice anche la cattiva politica, quella fatta cioè di cattive finalità e cattivi meccanismi (intendendo per cattivo, in questo caso, tutto ciò che va all’opposto del significato di polis concepita come luogo di realizzazione di una certa dimensione di bene comune), un atteggiamento malsano votato a sminuire e smantellare tutto quello che abbiamo di fronte.
Se anche avessimo il migliore dei governi del mondo, forse, manco ce ne renderemmo conto immersi come siamo in una polemica abbastanza sterile che se all’inizio sembra non colpire nessuno a lungo andare colpisce e fa danni soprattutto verso quelli che meno ci azzeccano: noi, semplici e comuni cittadini.
Forse questo tipo di atteggiamento, teso a polemizzare e sminuire, fa parte del nostro essere italici amanti della lirica e del tragicomico e animati, fino al parossismo, da un ancestrale individualismo non tanto liberale quanto di pura e sanguigna matrice hobbesiana dove ciascuno è lupo per tutti quanti gli altri (homo homini lupus).
Un individualismo determinato, forse, dalla storica frammentazione di poteri e poterini che nel nostro Paese, a partire dalla caduta dell’impero romano fino al trionfo nell’epoca dei comuni e delle successive signorie, l’ha fatta sempre da padrone, scalzando – piano piano – tutti i vari potenti che di volta in volta si sono presentati. Per certi aspetti, indipendentemente dal re o presidente del tempo, il paese si è sempre contraddistinto per una ordinata anarchia di fondo che, da nord a sud – forse a sud di più – ha governato le cose.
Una delle quasi infinite ragioni del nostro essere profondamente individualisti, forse, sta qui.
Ma aldilà delle sue origini, questo atteggiamento di parlar male e smantellare, almeno a parole, tutto quello che sembra voler avere un senso di collettivo e comune, a lungo andare ha un qualcosa di autodistruttivo.
Parlare sempre male di quello che abbiamo davanti agli occhi, anche quando effettivamente non ce ne sta bisogno, corrode, lentamente, come il sale, le radici di cui siamo fatti. Se tutto quanto fa schifo, se sono tutti quanti ladri, se il sistema non funziona e con lui niente altro gira allora è chiaro che Niente è degno della nostra fiducia, della nostra attenzione, di un minimo impegno. Che andasse tutto in malora.
L’atteggiamento di chi parla sempre male della politica senza mai combinare nulla per cambiare le cose è il Veleno peggiore del nostro tempo. Inquina il dibattito sui contenuti (perché a che serve se tutto fa schifo parlare di aliquote o di politica industriale?), la fiducia verso il prossimo sia esso il vicino o quello che ci sta davanti in fila al supermercato, svuota di significato il nostro essere parte di una comunità.
E l’esempio più lampante ce lo abbiamo sotto gli occhi: Roma, capitale d’Italia, è il simbolo concreto di questo sentire collettivo che si frantuma. L’immondizia per strada è esattamente la misura, forse, di un qualcosa che non funziona: se lasci un frigorifero al cassonetto in un quartiere residenziale significa che te ne fotti alla grandissima di sporcare il quartiere in cui vivi e peggio ancora se lo fai e vivi da un’altra parte.
Ma pure qua “Se tutto fa schifo, se tutto è da buttare, se il governo è ladro” allora tutto, e oltre il tutto, è quasi giustificato. Se tutto fa schifo tanto chi mi viene a rompere a me che lascio un frigorifero scassato vicino a un cassonetto?
Questo succede quando spariamo a zero: radiamo al suolo tutto quello che ci sta attorno. Non che si debba accettare quello che non funziona o non condannare ma esiste un senso della misura oltre il quale il parlare se diventa azione si trasforma in veleno per tutti.
La colpa non è sempre degli altri che ci stanno sopra e attorno. Ma è anche nostra. Anzi, molte volte è soprattutto nostra.
Tra i buoni propositi del nuovo Anno eccone uno: provare a leggere le cose e i fatti che caratterizzano il nostro vivere quotidiano in una dimensione di Comunità ponendoci due semplici domande “quanto serve quello che sto facendo al mio quartiere e alla gente che, insieme a me, ci vive? È una cosa buona per me o per loro o cattiva”?
Può sembrare quasi sorprendente di come – con queste due domande – buona parte del nostro “maledicere” e lamentarci alla fine si sgretola come un castello di sabbia.