Sembra che il segretario del PD, Nicola Zingaretti, in uno sfogo fuori onda fatto con giornalista Massimo Giannini di Repubblica dopo una intervista, abbia espresso molta amarezza e delusione per come vanno veramente le cose nel governo di coalizione che vede il PD e il M5S impegnati, inizialmente con l’appoggio anche di Matteo Renzi e del suo gruppo. Successivamente Renzi si è distaccato dal PD dando vita ad un nuovo partito chiamato Italia Viva; per questo motivo ora l’attuale governo è diventato una coalizione tra il PD, il M5S e Italia Viva di Renzi.
Le lamentele di Zingaretti, in parte rese note dallo stesso Giannini, erano già state captate dagli osservatori politici, e anche dagli elettori particolarmente attenti agli avvenimenti della politica, motivo per il quale non fanno altro che confermare i dubbi che, sin dall’inizio della attuale coalizione di questo governo, in tanti hanno espresso; questa coalizione, raffazzonata dagli originari due leader, Zingaretti e Di Maio, ora diventati tre con Renzi, ha un peccato di origine, un vizio di fondo che era emerso immediatamente dopo l’accordo e che sembra sia esploso in modo clamoroso successivamente, e cioè dopo i recenti risultati delle elezioni regionali in Umbria.
E giacché Massimo Giannini è un giornalista credibile, lo sfogo di Zingaretti appare quindi credibile.
I crucci di Zingaretti non sono costituiti da Italia Viva di Matteo Renzi, partito che il sempre vispo ex Premier ha voluto fondare per essere un protagonista al tavolo delle trattative unitamente agli altri due maggiori leader, nella convinzione che anche con la sua risicata forza (si parla di un incerto 4.%, tutto da verificare in sede elettorale) anche lui si sieda ai tavoli di eventuali trattative.
E tutto sommato Renzi, per Zingaretti, costituisce il male minore giacché il recalcitrante Renzi più che tirare calci, non sembra poter andare oltre, proprio in virtù della sua esigua forza politica; e alla fin fine è sempre un ex PD e comunque, se pure si tirasse fuori dalla coalizione di governo, non otterrebbe alcun vantaggio (anzi!) né metterebbe in crisi il governo.
Per Zingaretti il vero problema, invece, è l’altro alleato, il pentastellato Luigi Di Maio il quale nominalmente, ma solo nominalmente, si appoggia alla forza politica che alle elezioni del 2018 videro il M5S il primo partito uscito dalle urne, con quel 33.% circa attribuitogli dagli elettori.
E’ bene ricordare che la seconda forza politica, allora venuta fuori dalle urne, fu la destra unita di F.I. di Berlusconi, Lega di Salvini e FdI di Meloni, che complessivamente aveva totalizzato il 35% dei consensi, praticamente più del M5S e se le cose fossero andate per il loro verso, il governo sarebbe stato fatto dal Movimento grillino con la compagine di destra.
Purtroppo, si fa per dire, tra Berlusconi e Di Maio venne fuori un aspro conflitto che, per semplicità, possiamo definire con un antico proverbio, “Giorgio se ne vuole andare e il Vescovo lo vuol mandare”,: “io con quello manco morto governo”, sbraitava Di Maio, e Berlusconi, di rimando, “Di Maio non lo vorrei nemmeno come il portiere del mio fabbricato”.
A quel punto rimanevano due alternative contrapposte: la prima era governo M5S e PD, ma il partito di Renzi si oppose tenacemente; la seconda un governo M5S e Lega (che dalle elezioni era venuta fuori con il 17,40% di consensi, cioè quasi la metà di quelli del M5S); e dopo tre mesi di intense trattative e la stipula di un documento denominato “contratto di governo” (quasi che fosse stata una compravendita o un negozio economico), finalmente il governo giallo-verde venne varato.
Ma emersero subito le difficoltà, in quanto entrambi volevano fare il premier, e i veti incrociati dirottarono i due verso la scelta di un terzo, e dal cilindro di Bonafede/Di Maio, emerse Giuseppe Conte, giurista fino ad allora sconosciuto se non nel campo giuridico e accademico, e tutt’altro che preparato a fare il Presidente del Consiglio. Tant’è che per circa quattordici mesi Conte è sembrato come un “asino in mezzo ai suoni”, ha fatto piuttosto il vice-premier ostaggio dei due premier i quali, però, si sono sgambettati e beccati quotidianamente, e pure essi, per l’intera durata del governo giallo-verde, se le sono suonate e cantate di santa ragione.
Poi ad agosto scorso, Matteo Salvini sbottò e avviò, probabilmente inconsapevolmente, una crisi al buio, facendo (forse) un errore madornale: forte del risultato ottenuto alla elezioni europee tre mesi prima (in pratica il 34,3.% contro il 17.% del M5S, che in pratica si era dimezzato) pensò fosse giunto il momento di rompere con lo scomodo alleato, chiedendo nuove elezioni e pieni poteri.
Ovviamente tale richiesta era fondata, dal punto di vista costituzionale, sul niente, e anche la speranza che alla fine il Premier Conte l’avesse sostenuto era basata sul niente; anzi proprio da Conte Salvini ebbe i più sonori ceffoni, che nemmeno le varie corone e libri sacri esibiti durante il dibattito parlamentare sulla fiducia riuscirono a mitigare, e com’è finita è storia recente: nuovo governo tra PD e M5S, Salvini all’opposizione, ma da solo, visto che Berlusconi e FI sono oramai ridotti al lumicino e FdI della Meloni, sebbene in crescita, probabilmente un alleato scomodo come Salvini non lo accetterà mai.
Ma ora la situazione sembra identica a quella del precedente governo Conte, in quanto l’incomodo commensale ora è proprio Luigi Di Maio e il suo M5S che soffrono di un vizio di origine, di una malattia insanabile che li sta portando verso il baratro.
Tutto è partito dalla formazione del movimento creato dal comico cabarettista Beppe Grillo il quale, sfruttando le delusioni dell’elettorato italiano per il sempre più crescente distacco delle istituzioni dalla popolazione, distacco acuito anche da incredibili e incomprensibili privilegi che essa si è autoassegnati, creò il suo Movimento che, inizialmente, avrebbe dovuto distinguersi dai partiti e adottare comportamenti completamente diversi; alla fine quelle utopistiche buone intenzioni sono crollate impattando con una realtà istituzionale alla quale il M5S si è dovuta adeguare, finendo per diventare un partito come tutti gli altri, pure se ancora asserisce il contrario.
Ma il peccato originale del M5S è costituito anche dal fatto che, una volta ottenuto il successo elettorale, il suo fondatore Grillo si è defilato mettendi il Movimento nelle mani di una società privata, la Casaleggio Associati spa, e designando come responsabile unico proprio Luigi Dei Maio; ottenendo così il perverso risultato di mettere la politica del Movimento nelle mani di una società privata, e designare come responsabile unico un giovane che, senza esperienza, né arte né parte, è diventato il responsabile unico di un partito che inizialmente aveva ottenuto un terzo dei consensi elettorali trovandosi improvvisamente ad amministrare quella massa di voti e di parlamentari, ottenendo però i risultati che sono sotto gli occhi di tutti: dalle ultime elezioni della regione Umbria il M5S è uscito con le ossa rotte, essendo ridotto il consenso elettorale al 7,4.%, un tracollo inaspettato, reso ancora più cocente se confrontato con il 37% della Lega.
E’ chiaro che Di Maio tutti questi colpi li ha accusati, anche perché si è alleato con un partito, il PD, il quale tutto sommato sta crescendo, sia pure lentamente: alle elezioni umbre era al 22.%, contro il 18,7.% delle politiche 2018 e il 22,7% delle Europee.
Ma Di Maio si aggrappa ancora a quel 32.% delle politiche del 2018, e tenta di rimanere a galla solo perché finora nuove elezioni non sono sembrante necessarie; ma anche all’interno del movimento che egli dittatorialmente guida vi è un consistente e crescente numero di parlamentari che scalpitano per rendere collegiale la direzione dell’ex Movimento, mettendo quindi in discussione la figura dell’attuale responsabile unico al quale, proprio in quanto tale, viene attribuita la “debacle” che non sembra arrestarsi.
Dal canto suo Di Maio tenta di emergere sedendo al tavolo di governo con il PD e IV, ma assumendo, fuori dal tavolo, l’atteggiamento critico e contraddittorio come a suo tempo faceva Salvini durante il governo Lega-M5S, al quale Di Maio rispondeva per le rime, al punto che per intere settimane i due non si parlavano.
Ora però c’è, rispetto ad allora, qualcosa di diverso, vale a dire lo stile compassato e accomodante di Zingaretti, che ufficialmente sparge miele e getta acqua sul fuoco, ma che sembra sul punto di mandare il governo gambe all’aria come fa pensare lo sfogo che fuori onda ha fatto con Giannini.
A questo punto, è più che legittimo chiedersi se sia fondata la previsione del Premier Conte, che nei tormentati mesi del precedente governo sembra aver imparato a fare il Premier, e che assicura che questo governo arriverà a fine legislatura. Forse è più credibile che dietro l’angolo, costituito dalla legge di bilancio che dovrà essere varata entro dicembre, veramente si annida lo spettro di una crisi la quale, per come stanno le cose, non potrebbe che sfociare nello scioglimento del Parlamento e nella indizione di elezioni anticipate, dandola così vinta, in parte, a Salvini.
Sempre che, per accontentare le brame dei neo-parlamentari, desiderosi di completare la legislatura per puri fini economici, non venga fuori un altro “papocchio” che darebbe vita ad un governicchio e contribuirebbe a screditare ancora di più la nostra immagine a livello europeo e sullo scenario mondiale.