scritto da Eugenio Ciancimino - 29 Maggio 2020 09:46

Di Matteo/Buonafede, il silenzio cantatore dei pavidi

Nell’ambito del programma tv Atlantide de “La7”  dedicato alle stragi di mafia di Capaci e Via D’Amelio, l’ex PM e membro del CSM, Nino Di Matteo, ha detto due cose di attualità che attendono risposte finora non pervenute alla conoscenza dell’opinione pubblica.

La prima richiama la vicenda giudiziaria relativa alla cosiddetta trattativa Stato/mafia e la seconda riguarda il contenuto della conversazione da lui avuta con il Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, a proposito della scelta operata nel 2018 per la nomina del Direttore del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (DAP).

Nel primo caso il magistrato palermitano ha evidenziato la diversità di valutazione, rispetto ad analoghe situazioni,  circa l’utilizzo delle intercettazioni intercorse tra il Capo dello Stato, in carica all’epoca dell’istruzione degli atti giudiziari, Giorgio Napolitano, e Nicola Mancino, vice presidente del CSM. Quest’ultime sono state distrutte per conflitto di attribuzione che, viceversa, non è stato sollevato in precedenti circostanze, ma per altre vicende, quando l’inquilino del Quirinale era Oscar Luigi Scalfaro.

Nel secondo caso alla domanda del giornalista Andrea Purgatori di spiegare il senso della conversazione avuta nel 2018 con il Ministro della Giustizia, l’ex PM ha risposto di non ritenere opportuno di dare chiarimenti in uno studio televisivo affermando di poter dare “risposte circostanziate” in una sede istituzionale.

Sul punto va ricordato che nella discussione al Senato sulle mozioni di sfiducia al titolate del dicastero della Giustizia Bonafede i garantisti del Pd, e non solo, hanno sostenuto, ed a ragione, che il racconto reso in un contesto televisivo non sarebbe potuto essere sufficiente per argomentare le dimissioni di un Ministro. Se ne deduce che uno dei due protagonisti della vicenda, Bonafede, ha usufruito dell’aula di un ramo del Parlamento, con relativo conforto del voto finale, per spiegare ed argomentare la correttezza della sua condotta, mentre Di Matteo, membro del CSM, resterà con il classico cerino in mano fino a quando l’organo di un’altra istituzione dello Stato non gli consente di rendere pubblica ed ufficiale, con relativa bollinatura, la sua narrazione.

Nel silenzio il dubbio nella bilancia pesa sul piatto di Di Matteo che ha il diritto accedere, al pari di Bonafede, ad una tribuna istituzionale. Chi ha i poteri per concedergliela avrebbe il dovere di sollevare qualsiasi ombra che possa intaccare la onorabilità delle parole dette da un magistrato autore di inchieste giudiziarie fra le più delicate per la recente storia della Repubblica, ancora non definite nel riscontro di responsabilità e contaminazioni.

Il silenzio può avere ragioni di senso politico, quello che ha orientato la negazione della sfiducia a Bonafede al fine di non mettere in crisi il governo Conte; ma non è sostenibile, almeno sul piano etico e per la onorabilità delle istituzioni non far parlare Di Matteo nei luoghi deputati.

Più che un momento di riflessione per sopire i frastuoni dell’antagonismo politico sembrano prevalere i segni pavidi di un canto soffocato o per ragioni di Stato o per evitare di certificare la separazione della verità dalla menzogna.

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