Senza andare a incomodare i grandi filosofi e pensatori dei secoli passati, (Voltaire, nella sua avventurosa e tormentata vita ne fu vittima e le dedicò, nel 1763, il “Trattato sulla tolleranza”), ma più pedestremente il dizionario il Devoto-Oli definisce la Tolleranza “la capacità di tollerare senza subire danni” oppure “atteggiamento di rispetto o di indulgenza nei riguardi di azioni e convinzioni altrui, anche se in contrasto con le proprie”.
Oggi si fa un gran parlare della tolleranza, della necessità di essere tolleranti, della opportunità di praticare la tolleranza che è anche una virtù basata sulla reciprocità, nel senso che ciascuno di noi è opportuno che accolga la diversità di altri in quanto può essere portatore, pure inconsapevole, di un atteggiamento che altri potrebbero considerare intollerante, talché l’esercizio reciproco della tolleranza nei confronti di altri comporta il beneficio che altri siano tolleranti nei confronti delle nostre eventuali diversità.
La virtù della tolleranza non è necessariamente collegata all’essere cristiano o al professare di una religione, pure se non va disconosciuta la prerogativa di alcune religioni che predicano la tolleranza nei confronti dei “diversi”, e la pratica di questa virtù sembra disporre benevolmente nei confronti di chi la esercita.
Tutto ciò premesso, molto scalpore ha fatto qualche episodio di intolleranza verificatosi negli ultimi giorni in alcuni istituti scolastici italiani, presso i quali alcuni studenti, affetti da quale disabilità o diversità, sono stati incomprensibilmente discriminati al punto da non consentire loro di partecipare ad attività culturali al di fuori degli istituti scolastici per evitare che gli altri alunni venissero turbati o dovessero impegnarsi nel dover fornire una pure minima forma di assistenza, quale, ad esempio, dover dormire nella stessa stanza o stare seduto allo stesso tavolo.
In un caso sembra che, addirittura, si sia nascosto ad uno studente disabile la organizzazione di una “gita fuori porta” che è stata poi dolorosamente scoperta allorquando lo studente escluso, recatosi quel giorno a scuola, ha trovato l’aula deserta.
In qualche altro caso sono stati proprio i genitori degli alunni cosiddetti “normali” ad opporsi che gli alunni “diversi” partecipassero alle gite scolastiche, per evitare disagi ai loro “normali” pargoli.
Viene da interrogarsi sul ruolo educativo della scuola nei confronti degli alunni e anche dei loro genitori, e sulla funzione che i docenti debbono svolgere anche nell’educare alla socializzazione nei confronti di tutti, normali e diversi, e sulla necessità che nei confronti di qualcuno meno dotato si pratichi, appunto, quella tolleranza della quale tanti si riempiono la bocca, salvo a sentirsene esonerati allorquando tocca ad essi praticarla.
Ci sarebbe molto da disquisire sul concetto di “normalità” e sul suo contrario, giacché non è automatico che la convinzione o la catalogazione di essere normale determini effettivamente la caratteristica della “normalità”: cos’è la “normalità” e la “diversità” in una società, quella odierna, nella quale tanti “normali” sembrano degli indiavolati presi dalle numerose incombenze che la freneticità odierna impone, confrontati con i cosiddetti “anormali” che sembrano vivere beatamente ritmi di vita più tranquilli e sostenibili? Talché nessuno può arrogarsi il diritto di considerarsi “normale” al confronto di altri.
Ma viene da interrogarsi anche su un altro aspetto strettamente legato al concetto di tolleranza, vale a dire quello della “accoglienza”: l’accoglienza del diverso per nazionalità, cultura, tradizione religiosa, modo di vivere. Tutti noi, in Italia e in Europa, stiamo vivendo il quotidiano dramma dell’esodo di intere popolazioni che si spostano da uno ad un altro stato per scappare da guerre, stragi, carestie, e cercare di trovare negli stati più “ricchi”, più evoluti, meno conflittuali, quelle condizioni minime di vita negate nei loro paesi d’origine.
E l’accapigliarsi quotidiano dei vari stati europei sul problema dell’accoglienza, fa molto riflettere anche in considerazione che, all’interno di uno stesso stato, esistono, com’è giusto che sia, opinioni e atteggiamenti totalmente diversi che, purtroppo, al di là della sterile demagogia, non trovano un punto di incontro, un momento di sintesi che dovrebbe essere dettato dalla consapevolezza che il problema non si può far finta di ignorarlo, né è con barriere fisiche che si può pensare di risolverlo.
Ma allorquando, poi, riflettiamo sugli atteggiamenti intolleranti di alcuni alunni “normali” nei confronti dei compagni ritenuti “diversi”, e di taluni genitori che avallano, anzi alimentano tali atteggiamenti, viene da chiedersi quale e dove sia il seme che dovrebbe unire, mancando il quale se viene rifiutato il contatto fra il normale e il diverso, come si può pretendere che ci sia almeno un inizio di approccio verso l’accoglienza di tutti quei diversi che sono tali in quanto cittadini di altri stati che, rispetto al nostro, presentano enormi diversità.
In sintesi, se un ragazzo down viene respinto ad una gita scolastica, possiamo illuderci che sia possibile risolvere il problema dell’accoglienza di intere popolazioni ?
E dobbiamo purtroppo constatare che quelle forze, politiche e sociali, che predicano quotidianamente le barriere contro i profughi hanno ben seminato, trovando comunque il terreno fertile nei nostri cuori già predisposti, magari inconsapevolmente, al respingimento. (foto Angelo Tortorella)