scritto da Eugenio Ciancimino - 13 Luglio 2022 16:53

Silenzi, clamori e sgarbi a trent’anni dalla strage di Via D’Amelio

Silenzi, clamori e sgarbi a trent’anni dalla  strage di Via D’Amelio

Era fiducioso, Paolo Borsellino, sulle capacità delle giovani generazioni di comprendere, contrastare e combattere la mafia. Il 19 Luglio di quest’anno cade il 30.mo anniversario della strage di Via D’Amelio in cui egli perse la vita assieme agli agenti della scorta Agostino Catalano, Walter Cusina, Vincenzo Li Muti, Emanuela Loi e Claudio Traina.

Nel suo ultimo scritto, una lettera per gli studenti del Liceo “Cornaro” di Padova, steso e non completato dieci ore prima del mortale attentato, si dichiarava “ottimista”  vedendo nei “giovani, siciliani e non, un’attenzione verso la criminalità organizzata” diversa rispetto alla sua generazione “e quando saranno adulti avranno più forza di reagire”.

Questa riflessione può essere ritenuta come testamento spirituale del travaglio dell’uomo e del magistrato che attraverso il suo lavoro ed il suo bagaglio culturale aveva acquisito conoscenza e consapevolezza dell’essenza dei rapporti posti in essere da “cosa nostra” con apparati dello Stato attraverso  “infiltrazioni – come spiegava nella citata lettera – negli organi pubblici che tendono a condizionarne la volontà perché venga indirizzata verso il soddisfacimento degli interessi mafiosi e non di tutta la comunità sociale”.

Parole di estrema attualità pensando a come, oggi, preservare le risorse pubbliche contenute nel Pnrr e tenendo conto del valore strategico che la finanza riveste nell’economia reale.

Sul tema merita di essere rimarcato l’allarme del Comandante del ROS, Gen. Pasquale Angelosanto, in una intervista del 6 Giugno scorso a La Stampa, sulla necessità di attivare una “prevenzione avanzata in grado di cogliere anticipatamente gli indicatori dell’operatività mafiosa, anche negli ambienti economico/amministrativi permeati in maniera silente”.

Si tratta di un segnale che la mafia, a parte le “cosche” dedite al piccolo cabotaggio nei centri urbani ed ai pascoli abusivi nelle campagne, non fa più “scrusciu” e dopo la stagione delle stragi starebbe per riprendere l’originaria strategia di consociazione con le devianze degli apparati dei centri di potere. Ne sarebbero preferiti quelli attraverso i quali passano flussi finanziari ed informazioni di ogni genere, amministrative ed anche giudiziarie, comunque utili per realizzare affari e conseguire prestigio e consensi nella società civile.

E qui che si ripropone il senso del lascito del pensiero innovativo di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone di guardare oltre le “coppole storte” mirando a scardinare la mafia dalle sue radici storiche e consolidate nel contesto di rapporti sociali praticati in Sicilia. Si capisce, ora ed incompresa allora, la diffidenza di entrambi verso le atmosfere velenose vissute nel Palazzo di Giustizia di Palermo e proiettate in altri Palazzi o Palazzacci romani.

E si comprende anche, nell’odierna attualità, la decisione di Fiammetta Borsellino di non partecipare a pubbliche manifestazione ufficiali per l’Anniversario della strage di Via D’Amelio, la cui ideazione dopo trent’anni di depistaggi è divenuta qualcosa di inconfessabile, avendo rivelato conati di intelligenza superiore alle capacità di semplici “pecorai” corleonesi.

Perché, al di là dei virtuosismi dialettici o strumentalizzazioni politicanti, nelle aspettative dei parenti delle vittime, l’antimafia più che dichiararla o manifestarla nelle piazze va praticata con risposte credibili, da parte dei tribunali degli uomini, in termini di verità storiche e di giustizia se i responsabili di misfatti o omissioni sono ancora in vita.

Era questo lo spirito guida di Paolo Borsellino, rispettoso delle regole e della dignità delle persone, a prescindere dalle rispettive posizioni giudiziarie, non essendosi mai accodato, nell’esercizio delle sue funzioni, all’idea giacobina della repressione fine a se stessa utile ai clamori della retorica politicante. E suona come ultimo sgarbo al suo modo di intendere la giurisdizione la recente prescrizione del reato di calunnia per due poliziotti imputati nel processo sui depistaggi della strage di Via D’Amelio.

Paolo Borsellino si è impegnato anche fuori dalle aule giudiziarie ed ispirato dal pensiero filosofico di Giovanni Gentile si è speso per la divulgazione della cultura come educazione dello spirito, specialmente presso comunità giovanili. Attitudine da lui osservata anche durante le convulse giornate, 57, dopo la strage di Capaci, quando impegnatosi nella ricerca di fatti e verità stava per rivivere un’antica leggenda di sfida e di coraggio.

Quella di “Colapesce”, il ragazzo pesce che nella versione siciliana, immergendosi su richiesta di Federico II negli abissi dello stretto di Messina, scopri che l’Isola si reggeva su tre colonne, di cui una spezzata, e dopo avere toccato la palla di cannone della scommessa ingaggiata con l’Imperatore nel riemergere, sollevando la testa in alto, fu travolto dalle acque che lo sommersero come un marmo sepolcrale e “si ritrovò in uno spazio orribile, vuoto, silenzioso”: parole con cui Vittorio Del Tufo illustra il finale della leggenda in segreti e miti partenopei.

Una metafora in cui si può inscrivere la vita e l’opera di Paolo Borsellino, che la sorella Rita soleva raccontare ogni qualvolta che si trovava a testimoniare nelle comunità scolastiche affinché l’impegno del magistrato e l’esempio di cultura civica dell’uomo non cadessero nell’oblio o nella banalità delle celebrazioni.

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