Artemisia Gentileschi
Artemisia Gentileschi, pittrice straordinaria paragonabile a Caravaggio. Una donna coraggiosa che ha denunciato il suo stupratore
[…] questa femina, come è piaciuto a Dio, havendola drizzata nella professione della pittura in tre anni si è talmente appraticata che posso ardir de dire che hoggi non ci sia pare a lei, havendo per sin adesso fatte opere che forse i prencipali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere
Nata a Roma l’8 luglio del 1593, figlia di Prudenza Montone e del pittore pisano Orazio Gentileschi, Artemisia fin da bambina si trova a giocare con i colori del padre e a posare per lui come modella per i suoi dipinti. È nello studio romano di Orazio, infatti, che la giovane inizia i suoi studi di arte pittorica che la porteranno, ben presto, a intraprendere, con grande abilità, una carriera distinta e autonoma che, seppur ostacolata, soprattutto all’inizio, da una certa discriminazione culturale di natura sessuale, la renderà ugualmente una delle più famose pittrici della storia.
L’episodio più noto della vita di Artemisia Gentileschi è quello della violenza subita all’età di diciotto anni non ancora compiuti per mano di Agostino Tassi, pittore di buon livello, amico di Orazio Gentileschi e suo collaboratore: allo stupro seguì un processo, e gli atti del processo ci sono arrivati nella loro interezza, condizione che ci ha consentito non soltanto di capire come andò la vicenda, ma, attraverso le testimonianze e gli interrogatori, è possibile anche ricavare molti particolari sulla vita degli artisti coinvolti.
L’artista si era invaghito della figlia dell’amico, e secondo quanto racconta la stessa Artemisia, il giorno 9 maggio 1611 la ragazza subì una violenza sessuale da parte del pittore. Lo stupro all’epoca era un reato, e nel caso specifico era tanto più grave per il fatto che Artemisia era stata deflorata durante la violenza, ma purtroppo, secondo la mentalità dell’epoca, lo stupro era anche considerato infamante per la donna che lo subiva: tuttavia, il disonore poteva essere in parte riparato con un matrimonio. Così, inizialmente Agostino Tassi promise ad Artemisia di sposarla.
Artemisia credette quindi alle promesse di Agostino e tra i due nacque una relazione che durò alcuni mesi, fino a quando si scoprì che in realtà Agostino Tassi era già sposato. Tassi fu dunque denunciato da Orazio Gentileschi, e il processo durò da marzo a novembre 1612.
Del processo ne parla in maniera approfondita Eva Mencio nel suo testo, Artemisia Gentileschi. Lettere precedute da “Atti di un processo per stupro”:
La pioggia batte rabbiosa sugli antichi vicoli della città di papa Paolo V, cancellando la luce di un pomeriggio di maggio nell’anno del Signore 1611. Nella stanza grande della sua abitazione – una casa sobria ma decorosa d’artista nel cuore di Roma – la giovane intinge il pennello nei colori della tavolozza. Artemisia lavora al ritratto di un bambino, che i posteri non vedranno mai: il figlio di Tuzia, amica di famiglia e pigionante nello stesso edificio. Il quadro sta venendo bene, pensa la donna. E’ bella, vigorosa nei suoi 18 anni, sa leggere e presto imparerà anche a scrivere, coltiva orgogliosa il suo talento artistico.
Nessuno disturba quel momento creativo. I fratelli sono fuori, il padre Orazio è impegnato sul Monte Cavallo, il Quirinale, ad affrescare la Loggetta nei giardini del cardinale Scipione Borghese. In una parte lontana della casa lavorano alcuni muratori; sono discreti ma distratti: hanno dimenticato aperto l’ingresso, dando l’occasione per l’inizio di questa storia.
Improvvisamente, infatti, la solitudine della giovane muta in compagnia inaspettata. Di soppiatto nella stanza entra Tuzia, che maliziosamente conduce Agostino, un trentenne piacente e scapestrato, che Artemisia conosce, amico e compagno di lavoro del padre a Monte Cavallo. Agostino congeda Tuzia, blandisce la giovane che resta fredda, poi la spinge in camera.
Mi mise un ginocchio
tra le coscie ch’io
non potessi serrarle
Il processo fu lungo e Artemisia dovette difendersi da molte diffamazioni. Per verificare che la sua deposizione fosse attendibile, fu costretta a sottoporsi a visite ginecologiche da parte di due levatrici, nonché, come era previsto, alla tortura dei cosiddetti “sibilli”.
Questa tecnica consisteva nel porre delle cordicelle tra le dita delle mani congiunte e nell’azionare successivamente un bastone che, girando, stringeva le falangi fino a stritolarle. Ovviamente si trattava di una pratica non solo dolorosa, ma pericolosissima soprattutto per un artista, dato che si rischiava di compromettere la funzionalità delle dita. Mentre veniva torturata, si rivolse allo Smargiasso gridando: «Questo è l’anello che tu mi dai, e queste sono le promesse!».
Il processo terminò nel mese di settembre: Tassi venne ritenuto colpevole. Artemisia ne approfittò per lasciare Roma e affrontare in modo indipendente il resto della vita. La sua ascesa fu rapida ed ebbe una brillante carriera.
In Giaele e Siera, come anche in Susanna e i vecchioni (1610), ma soprattutto nel suo, probabilmente più celebre dipinto, Giuditta decapita Oloferne (1620), è possibile vedere «l’urlo» della rabbia di Artemisia. La pittrice con questi dipinti denuncia il suo stupratore, ma, in fondo, denuncia e polemizza tutti quegli atteggiamenti che oggi potremmo definire maschilisti, sintomo di una cultura patriarcale.