Una giornata particolare, il 6 maggio 1938: la visita di Hitler a Roma
Indro Montanelli, nel presentare alcuni suoi libri di storia, scrisse che un paese che non conserva la sua memoria storica è un paese senza futuro.
Una delle date storiche del nostro paese è quella del 6 maggio 1938, che mi piace ricordare prendendo in prestito il titolo di un celebre film di Ettore Scola del 1977, “Una giornata particolare”, con Sophia Loren e Marcello Mastroianni, del quale già in passato ho avuto occasione di parlare.
Quel film è la cronaca di una giornata trascorsa da due emarginati della società dell’epoca, nel giorno della visita a Roma del Furer, quell’Adolf Hitler che si avviava a trascinare il mondo intero nella catastrofe della seconda guerra mondiale, dopo aver pianificato l’eccidio dei “diversi”, ebrei, polacchi, rumeni, o quanti altri non appartenenti alla pura razza ariana che il dittatore mitizzava come l’unica che avesse il diritto di vivere e dominare l’intero mondo.
Due emarginati in quanto lei, Antonietta, era una umile casalinga, vittima di un marito e di una famiglia che avevano come unica religione il mito del duce e del Fuhrer, mentre lui, Gabriele, era un ex radiocronista della Eiar, licenziato perché sospettato di essere non sessualmente prestante come il mito del gallismo esasperato dell’epoca imponeva: due emarginati che si incontrano e si confortano nel mentre tutto intorno impazza la propaganda nazi-fascista, rimbombano musiche, acclamazioni, marce e quant’altro preparato dalla organizzazione per l’accoglienza e l’ospitalità dell’illustre ospite e per gettare le basi per la imminente mondiale sciagura.
Esattamente ottanta anni fa, in un venerdì caldo e assolato, Roma ospitò il dittatore tedesco; nei giorni successivi Hitler avrebbe visitato altre città italiane, ma il “clou” della sua trasferta era proprio la città eterna, della quale rimase entusiasta, non solo per le bellezze della stessa ma anche per il peso politico che quella visita aveva e per gli indubbi vantaggi di immagine che gli procurarono il bagno di folla con Mussolini e il Re Vittorio Emanuele III; non è da sottovalutare la circostanza che Roma “ospita” anche la Città del Vaticano e che il Pontefice dell’epoca, Pio XI, Papa Ratti, non era stato mai ostile a Mussolini, «un uomo […] che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare», come ebbe a dire in un discorso pronunciato dopo la sottoscrizione, nel 1929 dei “Patti Lateranensi”, che costituirono una pietra miliare nei rapporti tra Chiesa e Stato, e grazie ai quali entrambi conseguirono vantaggi non solo morali; pure se, qualche anno dopo, ebbe a definire il fascismo una «statolatria pagana».
E’ noto che il Duce diffidava dello scomodo alleato, diffidenza corrisposta: ma è pur vero che per le due dittature, della quale quella tedesca sembrava un derivato di quella italiana ma che per crudeltà ed efferatezza ampiamente superò, non poteva ipotizzarsi una separazione al momento della decisione più importante, vale a dire quella di entrare in guerra contro mezzo mondo; decisione sulla quale certamente ebbe un peso rilevante la potenza economica e militare che la Germania era divenuta e che, nei calcoli del Duce, faceva il gioco di un’Italia che per economia e armamenti certamente non poteva competere con l’altra, ma della quale poteva avvalersi per conquistare quel “posto al sole” definitivo al quale egli e il Re aspiravano.
Tuttavia, è da precisare che Papa Pio XI, sebbene sollecitato dalla diplomazia fascista di fare un’apertura ad Hitler in occasione della visita a Roma, suggerendo anche un incontro in Vaticano, non volle in alcun modo avere contatti con il Fuhrer; Pio XI considerava il nazional-socialismo un «provocante neopaganesimo, appoggiato, purtroppo, spesso da personalità influenti», decidendo così la inconciliabilità tra Chiesa Cattolica e Germania di Hitler.
Quindi Pio XI non solo non accolse l’esortazione di Mussolini a riceve Hitler, ma vietò ai membri della Corte Pontificia, ai Vescovi e agli Istituti Religiosi di esporre “bandiere uncinate” e di partecipare a cerimonie ufficiali in onore del Fuhrer. E seguendo l’esempio dell’Arcivescovo di Napoli di lasciare la città per i giorni necessari ad evitare il Fuhrer, nella giornata della visita dello stesso a Roma pensò bene di andarsene a Castel Gandolfo. Ma non tutti seguirono le sue direttive, tant’è che, nei giorni successivi, qualche prelato venne pesantemente redarguito dal Vaticano per aver partecipato a cerimonie in onore di Hitler: addirittura l’Osservatore Romano non ne parlò nemmeno come fatto di cronaca.
Indubbiamente nel messaggio di Mussolini che esortava Pio XI, c’è una specie di adolescenziale e ingenuo fervore; infatti si legge testualmente: <<Perché vostra santità non coglie questo momento propizio? Perché Santo Padre, ora che si è ancora in tempo, vostra santità non mandi [sic] lo stesso invito a Hitler per una visita della città del vaticano, ricevendolo con tutti gli onore di sovrano? Vedrà Santo Padre, che questo suo atto di santa umiliazione, se così la vogliamo considerare, commuoverà talmente il capo del nazionalsocialismo che porterà lui e la nazione tutta nelle vostre braccia di padre amoroso, dando così Dio alla Germania e la Germania a Dio>>; dal che si deduce come Mussolini nutrisse grande, seppure ingenua, fiducia in un primo passo del vaticano verso il Fuhrer, fiducia che pone una serie di dubbi sulla stima che tanti, pure non fascisti, nutrivano sulle capacità e sulla lungimiranza del Duce. Lo stesso Re non aveva alcuna fiducia del Fuhrer, che considerava una specie di degenerato psico-fisico, tant’è che anche lui era stato inizialmente riluttante ad ospitarlo.
La visita, però, pure se organizzata tra l’ostilità generale, ma imposta di Mussolini, ebbe un grande successo, derivante anche dalla indubbia personalità dell’ospite oltre che dalla grandiosa organizzazione; gli stessi gerarchi fascisti non favorevoli (Galeazzo Ciano, ad esempio), dovettero poi riconoscerlo in quanto l’ospite riuscì a fondere il ghiaccio intorno a lui e anche i contatti personali gli procurarono simpatie, specialmente tra le signore.
L’amicizia tra Hitler e Mussolini era stata definitivamente suggellata, e le manifestazioni che proseguirono anche nei giorni successivi contribuirono ulteriormente a ciò: il sabato, ad esempio, era prevista una esibizione dell’aeronautica italiana, rinviata però al giorno dopo in quanto le condizioni meteo non erano favorevoli; la esibizione aveva anche lo scopo di dimostrare all’alleato tedesco la potenza militare italiana, ovviamente solo di facciata, giacché si sa come siano finite, poi, le varie missioni di guerra in Africa e in Grecia, e in quale considerazione fossero state tenute le forze armate italiane da parte della Germania, nonostante i tanti eroismi che i nostri militari seppero dimostrare.
Ma oramai il dado era tratto, la distanza che l’Italia aveva cercato di mantenere dalla Germania fino alla visita di Hitler a Roma era stata comunque colmata, i paesi erano diventati amici e le basi per la successiva catastrofe erano state oramai gettate.
Il nostro paese era oramai coinvolto e nulla più lo avrebbe potuto separare dal tragico destino della Germania e, di conseguenza, dell’Italia.
Eppure oggi, a ottant’anni da quell’evento, c’è chi ancora non gli attribuisce la funesta importanza che ebbe, con una specie di revisionismo storico che tenta di minimizzare i tanti lati negativi di quelle dittature e di ingigantirne i pochi lati positivi; e le celebrazioni legate alla recente festa della liberazione, celebrata il 25 aprile appena trascorso, ne costituiscono l’allarmante segnale derivante non solo dalla ignoranza dei fatti, ma dalla memoria corta che purtroppo ci caratterizza.
E’ indispensabile ricordare la storia, passata e recente, per dare concretezza ad un celebre frase che il grande giurista Piero Calamandrei ha detto: “La libertà è come l’aria. Ci si accorge di quanto sia importante quando comincia a mancare”.