Qualcuno certamente ricorda il vecchissimo film “Riso amaro” del 1949, con una prorompente Silvana Mangano (in compagnia di altri celebri attori), diretto da Giuseppe De Santis, storia drammatica di un territorio e di un’epoca, il cui copione era stato scritto da celebri scrittori, sceneggiatori e registi (lo stesso De Santis, Carlo Lizzani, Gianni Puccini e Corrado Alvaro), prodotto da Dino De Laurentis.
In quel caso il riso del titolo stava ad indicare il cereale coltivato prevalentemente nella bassa padana e raccolto dalle “mondine”, donne che periodicamente svolgevano tale attività per arrotondare le magrissime entrate in un paese appena uscito dalla seconda guerra mondiale, semidistrutto e alla ricerca di una sua identità e di un suo futuro che, fortunatamente, i politici dell’epoca seppero costruire tant’è che diventammo una potenza economica mondiale che, se i successivi politici non avessero contribuito a distruggere, oggi, pure in considerazione dell’estro e dell’inventiva di noi italiani, potrebbe ben competere più di come lo fa attualmente a livello mondiale.
Ma quella storia drammatica è ben poca cosa rispetto alle complicate e spesso drammatiche situazioni nelle quali ci veniamo a trovare, oramai quotidianamente, al punto che i vari disastri che ci colpiscono (ultima quella del torrente Raganello nel Parco del Pollino in provincia di Cosenza, che ha provocato finora 10 vittime accertate, e una bambina ancora in grave pericolo di vita), quasi non fanno più notizia.
Il mio riso, anzi sorriso amaro, si riferisce alla necessità di muovermi, perché sono un “irrequieto”, come mi dice sempre mia moglie, e per le varie esigenze che mi portano quotidianamente a spostarmi, in auto, tra Salerno, Nocera, Napoli, e la “divina” costiera (che io intendo non solo amalfitana, visto che sono un frequentatore innamorato anche di quella sorrentina).
Ma dopo il drammatico crollo del ponte Morandi di Genova, ora fare un viaggio in auto, anche di pochi chilometri, è diventato un serio e, a volte, irrisolvibile problema.
Infatti, fino a raggiungere Nocera, non vi sono eccessivi problemi giacché io preferisco andarci percorrendo la SS.18 o, in alternativa, la nuova bretella che dall’ex inceneritore metelliano, conduce a Nocera Superiore e poi a quella Inferiore; qualche ponte e cavalcavia, in quel tratto, pure c’è, ma non costituisco, almeno per me, grosso problema in quanto brevissimi e non intensamente frequentati e che, perciò, si percorrono in pochi minuti.
Ma proviamo ad andare, ad esempio, a Salerno, o per la SS.18, oppure per l’autostrada. Oramai la scelta è divenuta complicata giacché, seguendo la SS.18, fino a Vietri problemi di ponti e sopraelevate non ce ne sono.
Però, giunti all’ “Olivieri”, incomincia il dilemma dell’utilizzo del viadotto Gatto: vado per “sopra” (direzione autostrada) o per “sotto” (direzione Porto e via Ligea)?
Se vado per sopra, il tratto da percorrere è più lungo, e quindi, indipendentemente dell’intasamento dei mezzi pesanti che rallentano di molto la velocità, richiede più tempo; e sapendo che quel viadotto, sia perché lo sai vede ad occhio, sia perché oramai tutti ne parlano anche ufficialmente, è una strada in cemento armato a rischio, decido di andarmene per “sotto”, via Porto e Via Ligea: il tratto è più breve, c’è meno traffico, me la cavo in qualche minuto…
Però, giunto alla rotatoria del Porto, mi ritrovo sotto il cavalcavia Gatto che, se fa impressione a vederlo da sopra, addirittura terrorizza a vederlo da sotto, e se cade (Dio non voglia) mi ci ritrovo sotto.
Ma chi me lo fa fare, rifletto, magari a Salerno ci vado in treno, e così faccio marcia indietro e me ne ritorno mogio-mogio in quel di Cava, e mi prendo anche una lavata di testa della mia “signora” che mi aveva affidato una commissione urgente (per le mogli cosa non è urgente?) a Salerno; e io, per rabbonirla, mi invento una scusa e le assicuro che riparto, e a Salerno ci andrò per l’autostrada, e mi appropinquo anche a farlo, ma poi penso che il viadotto autostradale denominato “Olivieri” che da Cava “mena” a Salerno, non sta in condizioni tanto migliori ed è in osservazione e in allarme dal 2015: è vero che da sotto non lo si vede, ma tutti dicono che anch’esso andrebbe un momentino meglio monitorato e bla, bla, bla…
E allora decido di desistere: forse è meglio prendere il treno.
E vado alla stazione delle Ferrovie dello stato, ma la biglietteria è chiusa e l’edicola pure, frattanto mentalmente mi studio il percorso e ricordo che pure la strada ferrata, in qualche tratto, attraversa ponti a metà montagna…
E concludo che forse è meglio tornarmene a casa, mettere l’auto in garage e non uscire più: a Salerno ci andrò un’altra volta.
Frattanto rifletto su cos’è diventato questo paese, in costante emergenza, che sembra appena uscito da quella che seguì la seconda guerra mondiale.
Non me ne vogliano i miei cinque lettori, non intendo essere dissacrante o mancare di rispetto ai morti, di Genova o della Calabria, ma solo sdrammatizzare le preoccupazioni e affrontarle con qualche sorriso.
Sorriso amaro?
E degli altri viaggi, a Napoli o a Sorrento o altrove, ne parliamo un’altra volta.