Ci sta poco da fare. Per la maggior parte, viviamo distratti. Sovrastati da un flusso di informazioni e suggestioni che non riusciamo a gestire, ci stanno delle giornate, soprattutto con il caldo dell’Estate, e il ridondante bociare della polemica istituzionale, in cui ci sentiamo spaesati.
E così non ci facciamo manco caso: ci svegliamo e andiamo avanti come degli automi, senza fare troppe domande. Dalla mattina arriva la Sera e, quindi, il Senso di quello che abbiamo fatto sfugge, non risalta, svanisce, come tra le dita la sabbia sulla spiaggia.
Qualche giorno fa mi sono imbattuto in una domanda: “sei contento la mattina quando ti svegli di andare a lavorare?” Ora, non siamo tutti Bill Gates quindi, prima o poi, non si può stare sempre carichi a pallettoni per andare a lavoro. Soprattutto quando si fanno le ore piccole, magari.
Questa domanda però ha aperto un piccolo orizzonte: considerato che, oramai, le nostre vite sono cinque giorni su sette, caratterizzate da quello che facciamo quando siamo al lavoro, è facile chiedersi: “Qual è l’impatto della mia giornata? Come influisco concretamente nella giornata mia e di quelli che mi stanno attorno?”.
A questa domanda non ci pensiamo mai. Pensiamo, anzi, sempre a come chiudere la giornata per tornare a casa, senza fare caso poi al punto fondamentale e cioè che domani saremo al solito punto di partenza.
Così facendo, ogni giornata rimane uguale a se stessa in un continuo, quasi infinito, di sequenze pressoché uguali l’una all’altra, variate forse solo dall’ebbrezza febbrile del fine settimana. Ecco perché, forse, tanti nel fine settimane si annientano completamente, sia di relax che di altro, perché – fatti due conti – non ne possono più di una sequenza sempre uguale.
Invece, pensare all’impatto che posso avere sulla mia giornata e su quella degli altri, colleghi o familiari, cambia un poco il modo di vedere le cose. Il tempo assume un significato diverso. Non è uno “speramm che sta jurnat frnisch” ma, invece, diventa un “jamm bell ja’” per provare a fare qualcos’altro che magari il giorno prima non siamo riusciti a fare.
L’istinto fondamentale della conservazione, o meglio sopravvivenza che dir si voglia (per fortuna comunque che ci sta, forse) ci ha abituati a una coltivata e rassicurante consuetudo di azioni e momenti: per una sorta di protezione è meglio percorrere lo stesso binario, ogni giorno, piuttosto che prendere nuove vie.
Ma alla fine della giornata – in questo momento per chi scrive – la domanda “Che impatto ho avuto, che ho fatto alla fine nella mia giornata?” ha un sapore divertente e pure se non si è accocchiato niente già il fatto di riuscire a metterti di fronte allo specchio e farti sta domanda ti mette di buon umore e auspicio per la giornata di domani.
Tante volte viviamo distratti e passaggi così semplici ce li perdiamo. Non si sa bene per quale regione, forse per un curioso gusto di rimanere da soli, prendiamo strade che non sono niente altro che vicoli ciechi. Perdiamo un sacco di tempo sui social quando alla fine vorremmo avere più tempo.
Arriviamo sfiniti e scontenti, alla fine della giornata, senza riuscire a capire perché.
Trainati da non si sa bene cosa vorremmo vivere altre vite che, poi, in realtà non vorremmo. Perché poi, lo diceva Leibniz, viviamo comunque il migliore dei mondi possibili.
Soltanto che, semplice semplice, il migliore dei mondi esiste per chi si muove e per chi si chiede se la giornata vissuta sia stata diversa da quella precedente.
Altrimenti rimane tutto come in un circuito chiuso in cui si gira in tondo, tourn tourn.
Ma, alla fine, cià putimm fa