Continuiamo a trattare l’argomento dei danni ambientali, di cui abbiamo parlato in un precedente articolo, delle loro cause e dei rimedi che sono stati adottati a Strasburgo dal Parlamento europeo ad aprile scorso, dopo tre anni di intenso lavoro.
La locuzione “economia circolare”, è stata coniata già da qualche decennio; ne parlarono già nel 1976, in un rapporto alla Commissione europea, Walter Stahel e Genevieve Reday, i quali delinearono la visione di un sistema che avesse un impatto positivo non solo per la riduzione dei rifiuti, da considerare non più come un peso o un costo, ma un valore il quale, combinando ambientalismo e crescita economica, determinasse risparmio di risorse e creazione di posti di lavoro.
Ora, dopo oltre quarant’anni, l’Unione europea ha emanato quattro direttive base di una nuova normativa che dovrà limitare il più possibile la produzione di rifiuti, imballaggi e discariche; l’obiettivo è di avviarci verso un’ambiente più sano e meno costoso, più conveniente per le imprese, creando un nuovo modello di sviluppo, recuperando dai rifiuti le materie prime; così le aziende inquineranno meno, prevedendo il taglio, entro il 2035, di oltre seicento milioni di tonnellate di CO2, l’anidride carbonica, gas molto dannoso per l’ambiente, che, fra l’altro, ha prodotto un buco nell’ozono, un altro gas ma benefico per l’ambiente in quanto impedisce l’azione nociva dei raggi ultravioletti provenienti dal sole.
L’incremento della produzione di CO2 è la diretta conseguenza dell’attività industriale tipica dei paesi sviluppati; per produrre di più le aziende hanno bisogno di bruciare più combustibile e ciò produce più CO2 che inquina di più.
Ovviamente l’economia circolare non si limita solo alla minore produzione del CO2, ma si estende a tutti i prodotti il cui smaltimento effettuato in maniera irrazionale ha comportato i danni ambientali che sono sotto gli occhi di tutti, come ad esempio l’isola di plastica, che occupa uno spazio grande tre volte la Francia, creatasi nell’Oceano Pacifico
In futuro, se si vorrà produrre meno ossido di carbonio, occorrerà bruciare di meno, e le aziende che non vorranno ridurre la produzione industriale dovranno ricorrere a risorse alternative le quali, oltre ad essere più costose, presuppongono aggiornamenti o riconversioni del ciclo produttivo, il che comporta altri costi; analogo criterio di dovrà usare per la plastica, per i rifiuti industriali e quant’altro.
Tutto ciò inizialmente ha un costo che dovrà essere sopportato d’intesa da pubblico e privato, cosa che a quest’ultimo non fa piacere; ecco il motivo per cui il presidente Trump ha recentemente abbandonato l’accordo di Parigi, privilegiando le ragioni economiche delle imprese invece della riduzione dell’inquinamento, senza rendersi conto che tutti i paesi industrialmente forti e sviluppati si sono rapidamente avviati verso una situazione analoga a quella, ad esempio, delle maggiori metropoli cinesi, dove sono sotto gli occhi di tutti le condizioni in cui si è costretti a vivere, sotto un cielo costantemente plumbeo e carico di gas, per attenuare l’effetto negativo dei quali i cittadini debbono usare costantemente le mascherine.
E’ opportuno, a questo punto, concentrarsi sulle direttive emanate da Strasburgo in materia di “economia circolare” riportando, sia pure limitatamente, qualche stralcio dell’intervista di grande chiarezza che l’Europarlamentare Pd Simona Bonafè (che ha attivamente contribuito alla redazione dei citati provvedimenti comunitari) ha rilasciato qualche giorno addietro ad Altroconsumo, la più grande Associazione di consumatori del nostro paese e una delle prime in Europa.
Cos’è in pratica l’economia circolare e a cosa serve?
«Viviamo in un pianeta nel quale le risorse sono limitate e l’aumento della popolazione è costante. L’attuale modello di sviluppo, basato sull’economia lineare “usa e getta” non regge più. Non regge più economicamente, socialmente e, soprattutto, a livello ambientale. Si deve cambiare modello, ottimizzare i processi produttivi in ogni loro fase, attraverso l’innovazione, per avere un uso il più efficiente possibile delle risorse e minimizzare la produzione dei rifiuti. In un’economia circolare un prodotto è pensato nel design e nella scelta del materiale per durare, essere riparato e riciclato. Alla fine della sua vita, questo oggetto sarà di nuovo materia prima per un altro prodotto, con benefici per l’ambiente». In altre parole i rifiuti si trasformano da “problema da risolvere, costo da sopportare” in “opportunità da sfruttare”. «Quello che oggi buttiamo come rifiuto può diventare materia prima per nuove produzioni. L’economia circolare va intesa come una transizione di lungo periodo, che dovrebbe portare nuovi posti di lavoro e anche aumentare il PIL».
Quali sono i nuovi target?
«In base alla nuova norma almeno il 55% dei rifiuti urbani domestici e commerciali dovrà essere riciclato nel 2025 (oggi siamo al 44%). L’obiettivo salirà al 60% nel 2030 e al 65% nel 2035. Il 65% dei materiali da imballaggio dovrà invece essere riciclato entro il 2025 e il 70% entro il 2030. Il pacchetto Ue limita la quota di rifiuti urbani da smaltire in discarica a un massimo del 10% entro il 2035: questo è un punto nodale, su cui oggi c’è una grande diversità tra gli Stati membri. Oggi l’Italia viaggia intorno al 28%, ma ci sono Paesi messi peggio».
Perché parliamo di economia circolare se poi si tratta solo di rifiuti?
«Si tratta di un passaggio epocale, perché anche se formalmente abbiamo approvato quattro direttive che hanno a che fare con i rifiuti, in gioco c’è molto di più. L’idea su cui sta investendo l’Europa è che si debba cambiare modello di sviluppo. Quello di oggi non funziona più, perché consuma più materie prime di quante l’ambiente sia in grado di rigenerare. L’economia circolare, invece, innesta l’idea che le materie prime le recuperiamo dai rifiuti e le rimettiamo nel ciclo produttivo creando un sistema che chiuda il cerchio e in questo modo lanciamo un nuovo modello industriale sostenibile e preserviamo l’ambiente».
Non sono mancate le critiche, c’è chi sostiene che si poteva fare meglio.
«Un limite forse è il fatto che finora ci siamo concentrati sui rifiuti urbani, che sono una parte del problema. Questo è un limite della direttiva quadro fin dal suo nascere, infatti in occasione di questa modifica abbiamo chiesto che siano inseriti anche i rifiuti di tipo industriale. In Europa ci sono ancora Stati che conferiscono il 70-80% dei rifiuti in discarica e ci sono enormi differenze a livello locale. Non era facile raggiungere il compromesso del 10%, anche se il Parlamento puntava al 5%. L’obiettivo è tentare di prevenire la produzione di rifiuti, cosa su cui il pacchetto punta molto».
Come si misura la circolarità di un processo produttivo?
«Questa è una delle domande a cui è difficile oggi dare una risposta. Non abbiamo ancora trovato la quadra, siamo all’inizio del processo, ma è un problema che ci siamo posti. Esistono già delle certificazioni a livello europeo, ma resta tutta una serie di questioni irrisolte. Ogni materiale ha caratteristiche diverse. Basti dire che oggi riciclare la plastica (solo una parte tra l’altro) costa di più, anche in termini ambientali, che produrre plastica vergine visto il basso prezzo del petrolio in questo momento. Poi c’è il tema dell’impatto sull’ambiente, lo misuriamo con la pressione sul consumo di materie prime, ma anche con la riduzione di emissioni di CO2».
Cosa cambia in concreto per i cittadini?
«I cittadini potranno acquistare prodotti più sostenibili, che le aziende hanno immesso sul mercato perché le normative lo impongono. L’impresa guarda anche alla domanda dei consumatori, che oggi chiedono questo, e quindi si cercherà di assecondare la domanda dei cittadini. Ecco perché sono convinta che queste diventeranno pratiche virtuose nel giro di non moltissimo tempo. Con i vincoli stringenti sulle discariche, si dovrà investire per riciclare il più possibile».
A Strasburgo si è parlato anche di un possibile impatto sull’occupazione.
«In merito girano diversi studi: quello della Ellen MacArthur Foundation, l’impact assestment della Commissione e il dossier del Parlamento. Sono studi simili, che danno risultati diversi. Se dovessi guardare nel mezzo, direi che sono previsti fino a 500 mila posti di lavoro in più in settori specializzati (la Commissione ne prevede un milione)».
Si parla anche di spreco alimentare.
«È la prima volta che viene introdotto nella legislazione europea l’obbligo di ridurre lo spreco alimentare. Non si tratta solo di un tema economico, ma anche di equità. Va detto, però, che deve essere ancora individuata la metodologia per capire esattamente cosa si intende per spreco alimentare e come calcolarlo. Si tratta comunque di un passaggio importante. Finora c’erano solo impegni politici, oggi abbiamo colto l’occasione per introdurre l’obbligo di ridurre gli sprechi alimentari. In Italia esiste già una legge valida, quindi per noi cambierà poco».
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Quindi rispetto all’attuale sistema “usa e getta” basato sull’acquisto, ad esempio, di una bottiglia di plastica che contiene acqua, che si beve per poi gettare via la bottiglia, il nuovo sistema prevede che la bottiglia contenente acqua sia di un materiale che si debba autorigenerarsi.
Cosa cambierà rispetto all’attuale sistema, visto che è già previsto in parte il recupero di ciò che buttiamo? Cambierà che, nel mentre la plastica, per fermaci a questo semplice esempio, oggi deve essere trattato in quanto plastica, in futuro la bottiglia non sarà più di sola plastica ma di un materiale che autonomamente dovrebbe trasformarsi in qualcosa di nuovamente utile.
Utopia? Non è detto. Ovviamente sarà compito della politica governare i processi orientandoli verso tale innovazione.
Speranza per il futuro del pianeta? Certamente, questa teoria potrebbe costituire
Completamento del testo: …potrebbe costituire l’ultima opportunità per arginare il degrado ambientale in corso.